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Fabrizio Federici
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A Ernesto Simini, studioso di storia contemporanea, dirigente emerito della Biblioteca Nazionale Centrale, già autore di saggi sul significato del XX secolo nella storia mondiale e sui retroscena del caso Watergate in USA, dobbiamo ora quest’altro saggio, edito da Armando ed., Sotto il segno del piombo – Dal buio della notte all’aurora della verità(Roma,2021,e.10,00). Che affronta in pieno uno dei “nodi gordiani” più irrisolti - e tendenzialmente rimossi - della nostra storia: gli “Anni di piombo”, dall’esordio post ’68 e post autunno caldo, con la strage di Piazza Fontana del ‘69, allo “zenith” del terrorismo BR con l’uccisione, nel ’78, di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta, sino alle loro ultime propaggini negli anni ’80 -’90.
Il pregio maggiore del libro di Simini sta, diremmo, nell’attenta ricostruzione (che occupa la prima parte di “Sotto il segno del piombo”) del contesto internazionale in cui maturarono le vicende, post Seconda guerra mondiale, d’un’Europa che cercava di riprendersi dai “goyeschi” “disastri della guerra”, e d’un’Italia che tentò costantemente di ritagliarsi un suo autonomo spazio in un mondo sempre più dominato dai due padroni USA e URSS (da Enrico Mattei e dalle geniali soluzioni tecnologiche e socio-economiche di Adriano Olivetti al duro confronto “craxiano” con gli USA a Sigonella). Un’ “entente cordiale ma non troppo”: così Simini definisce, in complesso, i rapporti degli anni ’50 - ’60 fra l’Italia e il blocco sovietico, da un lato, e gli USA, dall’altro. In tempi recenti – ricorda l’Autore – l’apertura di fondi archivistici come quelli di Fanfani e Andreotti e i documenti provenienti dall’Archivio di Stato della Federazione russa, principale erede della vecchia URSS, hanno evidenziato la speciale attenzione riservata dai sovietici, negli anni dai ’50 ai ’70, all’ Italia. In quanto sede del primo Partito comunista dell’Occidente, e possibile membro “controcorrente“ dell’Alleanza atlantica, disponibile anche a intese (nella storica tradizione italica, del resto, dei “giri di valzer”) con Oltrecortina e con Paesi arabi certo non filoccidentali (come ad esempio, proprio negli anni dai ’50 ai ’70, l’Egitto di Nasser e la Siria baathista).
Sull’”altro versante”, Simini ripercorre attentamente l’evoluzione della linea USA verso l’Europa occidentale, dal “paternalismo discreto“ di Eisenhower all’ “equal partnership” lanciata da Kennedy. Verso l’Italia, la Casa Bianca, ricorda Simini, opta per una politica di aiuti “a pioggia” ai partiti del Centrosinistra, dalla DC, con tutte le sue correnti, ai socialisti autonomisti del PSDI e delle correnti nenniane dello stesso PSI. Ma proprio quando il Centrosinistra organico in Italia è appena nato, con l’inizio dei governi guidati da Aldo Moro (dall’autunno del ’63 alla tarda primavera del ’68), il quadro internazionale si fa più teso e difficile: con l’innovatore ( pur con le sue esitazioni e ambiguità) Kennedy assassinato a Dallas, il pieno coinvolgimento USA nella guerra del Vietnam, Nikita Kruscev “traballante” (sarà infatti detronizzato, a ottobre del ’64, dalla “congiura di palazzo” brezneviana) e lo scoppio dell’atomica cinese.
Seguiranno, per l’Italia, anni altrettanto difficili, coi primi sintomi di esaurimento della “spinta propulsiva” del boom economico, i segnali di malessere sociale (dalle fabbriche alle Università) e i primi “vagiti” della contestazione violenta. Ma sono, questi, pure gli anni in cui, pur tra ambiguità anche gravi, matura lentamente l’evoluzione del PCI: che, specie con Berlinguer, segretario dal ’72, inizierà – senza però dirlo apertamente – a metter sempre più in soffitta i sogni rivoluzionari e palingenetici del “1945 e dintorni”. Il Paese sta cambiando fortemente, URSS e USA lo capiscono; soprattutto lo capisce Moro, dal ’63 al ’68 Presidente del Consiglio e in ultimo, dopo il ’76, Presidente della DC, sino al tragico epilogo come più illustre vittima degli anni di piombo. Da leader del primo partito italiano, Moro matura ,verso il PCI, quella “Strategia dell’attenzione” che gli fa pensare di poter ripetere un giorno, nei confronti dei comunisti, la stessa scelta maturata, molti anni prima, con i socialisti: cioè il graduale coinvolgimento nell’area di governo, nell’ottica, per quanto possibile, d’una progressiva “social-democratizzazione” del partito già di Gramsci e Togliatti.
Una strategia al tempo stesso coraggiosa e discutibile, realistica e utopistica (di cui sarebbe stato davvero interessante vedere gli sviluppi con un Moro che fosse rimasto vivo). Che al leader DC (sul cui sequestro e uccisione si concentra, poi, l’analisi di Simini) costerà, com’è noto, l’ostilità di buona parte del suo stesso partito, delle gerarchie cattoliche – come del resto già occorsogli 15 anni prima, al tempo dell’apertura ai socialisti - e dell’establishment finanziario, al di qua e al di là dell’Oceano. L’Autore, però, onestamente ridimensiona (nel IV capitolo) l’episodio, su cui s’è tanto favoleggiato, delle presunte minacce del Segretario di Stato USA Kissinger a Moro nel suo viaggio in USA del 1975: trattandosi, in realtà, solo di tentativi di dissuadere il politico italiano dal portare avanti una politica gradevole ai russi.
E’ su questo terreno –come già dicevamo – il pregio maggiore dell’analisi di Ernesto Simini: meno condivisibili sono alcune sue conclusioni nella seconda parte del saggio, dedicata alla radiografia del terrorismo, soprattutto brigatista, dall’esordio nei primissimi anni ’70 al caso Moro e oltre. Se, infatti, si è sempre parlato di possibili aiuti ai brigatisti rossi da parte dei Paesi dell’Est (vedi, tra l’altro, il “Dossier Mitrokhin” dei primissimi anni 2000; e sono ormai accertati, anzi, i soggiorni anni ‘70 dei brigatisti nel “campo addestramento al terrorismo” cecoslovacco di Karlovy Vary), non è mai stato dimostrato –come invece sostiene Simini - che le BR, uccidendo gli uomini della sua scorta e sequestrando Aldo Moro, agissero su ordine, o comunque dietro precisi input, dei servizi segreti cecoslovacchi. Ancor più peregrina, francamente, è l’ipotesi che Moro, appena rapito, sia stato portato dai terroristi all’Ambasciata cecoslovacca (poco distante da Via Fani), che l’avrebbe brevemente ospitato: situazione che, se realmente verificatasi, avrebbe causato quasi sicuramente lo scoppio d’una guerra (possibile detonatore, a sua volta, d’un conflitto mondiale). Così come troviamo eccessiva l’insistenza dell’Autore sul fatto che, a poca distanza da Via Fani, all’epoca abitava l’ex leader di Ordine Nuovo Pino Rauti (che, peraltro, fu tra i primi, la mattina del 16 marzo 1978, a telefonare alle forze di polizia per segnalare la strage). Del resto, a proposito del presunto coinvolgimento dell’Est (e, quindi, soprattutto dell‘URSS) nel caso Moro, al di là di quelle che furono le prevedibili condanne ufficiali, da parte sovietica, della strage di via Fani e poi dell’uccisione dello statista, già il semplice buonsenso spinge a chiedersi perché mai Mosca sarebbe stata favorevole all’eliminazione di Moro quando questi stava realizzando una svolta politica che avrebbe fortemente avvantaggiato il Partito comunista all’epoca ancora legatissimo all’ URSS. Acute, però, e degne di approfondimento, risultano invece altre ipotesi di Simini: anzitutto quella che, nella seconda foto scattata dai BR a Moro nel “carcere del popolo”, il 19 aprile 1978, allo statista prigioniero sia stata messa in mano una copia de “La Repubblica” per “ringraziare” il quotidiano scalfariano del suo costante appoggio al “Fronte della fermezza”. Che, di fatto, stava favorendo i sostenitori del sacrificio di Moro sull’altare ufficiale della ragion di Stato.
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