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lunedì, 16 settembre 2019 14:05 |
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Francesca Bianchi
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FtNews
ha avuto il grande piacere di intervistare Silvia Giorcelli Bersani, professoressa ordinaria di Storia romana ed Epigrafia latina presso l'Università di Torino che ci ha accolto nella sua bella casa di Dronero (CN) per parlare del suo ultimo libro: L'impero in quota. I Romani e le Alpi (Giulio Einaudi Editore). In questo pregevole saggio la studiosa, attraverso uno scrupoloso lavoro di lettura, traduzione e interpretazione delle fonti, ha ripercorso le tappe fondamentali della storia delle Alpi in epoca romana. Durante la nostra piacevole conversazione, la prof.ssa Giorcelli Bersani ha parlato della percezione che i Romani avevano delle Alpi e dei popoli che le abitavano, soffermandosi sui caratteri della penetrazione e del dominio di Roma nelle Terre Alte. La studiosa ha parlato anche dei culti diffusi presso i montanari. I territori alpini, infatti, oltre ad essere un luogo di notevole importanza economica, furono anche teatro di feconde contaminazioni culturali e grande sincretismo religioso. Ha insistito molto sugli spunti di riflessione che questo saggio può offrire sui temi dell'inclusione, dell'integrazione, dell'identità, ribadendo che le Alpi non furono una barriera, ma un "ponte" tra il Mediterraneo e l'Europa. La politica inclusiva dei Romani fu la loro forza; la loro capacità di accogliere e integrare le varie realtà culturali con cui venivano in contatto costituisce un'autorevole lezione per tutti noi, figli di un'epoca che spesso risponde alla convivenza pacifica innalzando muri e barriere.
Prof.ssa Giorcelli, come è nata l'idea di pubblicare un libro che ripercorresse in maniera approfondita la storia della Alpi in epoca romana? Come è strutturato questo saggio?
Il libro è frutto di vent'anni di studi e di ricerche sul contesto alpino in età romana, scanditi da letture, convegni e progetti. Il confronto con studiose e studiosi che condividono con me l'interesse per la storia delle Alpi in età romana è stato determinante per la qualità di spunti, suggerimenti, discussioni. Anche la frequentazione di amministratori che combattono ogni giorno per la dignità delle Terre Alte mi ha regalato uno sguardo più critico. La casa editrice Einaudi, nella persona di Walter Barberis, ha incoraggiato la scrittura di questo testo pensato per un lettore colto, ma non necessariamente con una preparazione antichistica.
Il volume si sviluppa per temi (l'ambiente, la storia, le città, l'economia, la religione), senza una rigida scansione cronologica: l'orizzonte di riferimento è quello compreso tra il III sec. a.C. e il III sec. d.C., con alcune incursioni nella protostoria e nell'età tardoantica.
Quando si parla di Alpi a quali territori ci si riferisce?
Per Alpi si intende l'intero arco alpino che oggi interessa Italia, Francia, Germania, Svizzera, Austria, Slovenia: in età imperiale questo territorio fu organizzato in sei province, le Alpes Maritimae, le Alpes Cottiae, le Alpes Graiae / Alpes Atrectianae, le Alpes Poeninae, la Raetia et Vindelicia, il Noricum, che ebbero storie diverse e soluzioni amministrative complesse. Nel libro si è scelto di considerare anche i territori montuosi della Transpadana, della Liguria, della Venetia per le affinità geografiche e perché la storia del territorio alpino si comprende solo se in relazione con le Prealpi e con la pianura. In un primo momento i Romani realizzarono in questi luoghi un'occupazione di tipo militare, che portò alla costituzione di distretti amministrati da praefecti di rango equestre; solo successivamente tali distretti furono trasformati in province sottoposte all'autorità di funzionari, scelti dall'imperatore e regolarmente stipendiati, che governavano con il titolo di procuratores.
A quali fonti ha attinto per ricostruire la storia della presenza romana nel territorio alpino? Cosa attestano le fonti antiche su questo argomento?
Le fonti antiche sulla romanità alpina sono poche, lacunose, di difficile interpretazione. Ciò comporta un accurato lavoro di lettura, traduzione e interpretazione. Le fonti letterarie, in latino e in greco, forniscono le informazioni di base sulla realtà geografica, antropica e storica delle Alpi: autori come Strabone, Plinio il Vecchio, Ammiano Marcellino e molti altri hanno raccontato il territorio, storia e caratteristiche, chi sulla base di esperienza diretta, chi attingendo a fonti più antiche andate perdute. Questi autori costruivano e indirizzavano le loro narrazioni secondo gli schemi dettati dalle consuetudini storiografiche coeve e dall'appartenenza politica, con risultati fortemente partigiani. All'interno delle fonti, le epigrafi per le Alpi rappresentano una documentazione di straordinaria pregnanza. Le iscrizioni venivano usate da tutti: uomini e donne, liberi e schiavi, ricchi e poveri. Erano molto diffuse e forniscono un quadro realistico e socialmente trasversale della società romana. A differenza della maggioranza delle fonti letterarie, espressione prevalentemente degli aristocratici, le fonti epigrafiche erano "vere", anche perché venivano esposte in luoghi pubblici. Per questo motivo le epigrafi sono la principale fonte per la ricostruzione della società romana imperiale, anche quella alpina.
Quale percezione avevano i Romani delle Alpi e dei popoli che le abitavano? Come si spiega il loro interesse verso un territorio tanto lontano da Roma?
Per rispondere a queste domande occorre calarsi nell'ottica espressa dalla cultura romana. I Romani non praticavano le montagne alla ricerca dell'isolamento, del silenzio, della contemplazione, come si fa oggi. La visione della montagna quale paesaggio incontaminato, sublime, lontano dalla frenesia cittadina era assente nella mentalità collettiva romana: l'attraversamento delle montagne era sempre impresa ardua. Freddo, neve, ghiaccio non sono compatibili con la vita, provocano isolamento e barbarie. Per il geografo Strabone le alte montagne sono elementi naturali spaventosi e pericolosi contro i quali nulla può l'ingegno umano, sono un luogo aspro e duro, e durezza infondono alle persone che le popolano: fra inospitalità dei luoghi e selvatichezza degli abitanti esiste un legame molto stretto che rende questi luoghi incivili e impraticabili. In generale, i Romani consideravano luoghi orribili quelli non antropizzati: non solo le alte montagne, ma anche i deserti assolati, le foreste profonde, i mari aperti, le paludi mortifere, le isole sperdute. Questi ambienti riflettevano il sacro orrore dell'uomo romano al cospetto della natura misteriosa e minacciosa, dimora di potenze naturali e divine incontrollabili. Il paesaggio a lui caro era soltanto quello della campagna ben organizzata, della città ospitale, del mare calmo e navigabile, tutto il resto faceva paura. Per i Romani, la bellezza realizzata e l'umanità autentica erano frutto della loro civiltà e del loro intervento sulla natura: essi si collocavano al centro ideale del mondo, in un ambiente perfetto intorno al quale si intensificava la barbarie a mano a mano che ci si allontanava da Roma e dal mare. Dunque le Alpi, massima espressione geografica delle Terre Alte, non erano considerate ambienti né belli né addomesticabili, non erano produttivi, né vivibili, e nemmeno piacevoli da vedere. La montagna rappresentava un ambiente più adatto alla vita animale che a quella umana, dal quale era opportuno che gli uomini si tenessero a distanza. Secondo l'immaginario popolare, nei boschi e sui monti vivevano satiri dispettosi e fauni capripedi, nelle caverne si rintanavano uomini pericolosi; frane e valanghe precipitavano all'improvviso, il gelo rendeva scivolosi i passaggi. Per questi motivi i Romani guardarono al Nord molto tardi nella loro storia, quando le esigenze politiche di ampliamento dell'impero e di controllo dei confini resero necessario conquistare e romanizzare anche le Prealpi e superare la catena alpina. Poi compresero che da questi territori era possibile ricavare qualche vantaggio in termini economici. Infatti furono soprattutto gli imprenditori a giudicare favorevolmente l'ingresso romano in questi territori, speranzosi di poter approfittare di mercati nuovi e di nuove possibilità di arricchimento.
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Prof.ssa Silvia Giorcelli Bersani
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Quale significato attribuivano alla catena alpina?
I Romani attribuivano un significato ben preciso alla barriera alpina: essa si collocava a presidio della penisola e divideva l'Italia dall'Europa, separava il cuore della civiltà romana dal mondo dei barbari. In Erodiano è evidente l'idea delle Alpi come muro che difende l'Italia, proprio come una cinta muraria difende una città. Questa idea di separatezza, di muro fu mitigata a mano a mano che i Romani procedevano con l'ampliamento del loro impero: la decisione di guardare a nord e di occupare aree consistenti di Europa modificò l'idea che essi avevano della catena alpina, che si trasformò da barriera inespugnabile a cerniera di contatto tra due mondi. Attraverso la lettura degli autori antichi è possibile ripercorrere le tappe della trasformazione della percezione che i Romani avevano di questo territorio.
Come possiamo intendere, dunque, la conquista romana delle Alpi? Come avvenne la sottomissione delle popolazioni alpine?
La conquista delle Alpi è da interpretarsi nell'ottica della politica di Roma come una politica legittima di incivilimento di popoli barbari attraverso la realizzazione di arterie stradali e l'applicazione del diritto romano; la costruzione delle strade non ha avuto solo lo scopo di aprire transiti sicuri, ma anche di rompere l'inaccessibilità delle zone alpine, l'isolamento di quelle popolazioni e la loro ferinità; le strade hanno favorito i contatti tra montanari e contadini della pianura, sviluppando scambi di produzioni, di pratiche, di idee. Sotto Augusto la sottomissione delle popolazioni dell'intero arco alpino fu ottenuta con una serie di interventi militari che lo impegnarono fra il 25 e il 7-6 a.C. Queste guerre di conquista, di cui Augusto si premurò di precisare il carattere "giusto" (erano condotte, quindi, a difesa dell'impero), celavano forti interessi economici, quali la protezione dei commerci transalpini e la solidità dei confini settentrionali dell'impero. Per assicurare una mobilità rapida tra l'Italia e l'Europa centrale era indispensabile aprire e garantire la completa agibilità e sicurezza delle strade di valico e controllare le popolazioni indigene che fondavano la loro economia sullo sfruttamento delle attività connesse con l'attraversamento dei valichi. La conquista romana in area alpina fu sì un problema militare, ma soprattutto di organizzazione dei territori: al termine della conquista, le Alpi erano completamente trasformate sotto l'aspetto amministrativo, antropico e culturale.
Quali conseguenze comportava essere una popolazione alpina vinta?
Significava perdere la libertà e la sovranità e diventare suddita di Roma; significava essere costretta a rispettare il diritto romano, ad acquisire il latino come lingua ufficiale, a usare la moneta romana, a pagare le tasse, a fornire soldati per l'esercito. Significava anche avere molti dei diritti dei Romani. Una volta sconfitte, le popolazioni perdevano la loro autonomia, diventando vere e proprie civitates, da gentesche erano, cioè si trasformavano da popoli informi in comunità strutturate secondo le logiche romane.
In che maniera Roma riuscì a conquistare i vinti e ad esportare la sua cultura e la sua civiltà? Quali furono le caratteristiche di questo processo di romanizzazione?
Roma sedusse i vinti con l'efficienza della propria politica e con la raffinatezza della propria cultura. Naturalmente, il trasferimento del sistema politico e culturale di Roma avvenne a prezzo della perdita della libertà e dell'autodeterminazione dei popoli. La civilizzazione romana fu considerata come un fenomeno positivo, nella misura in cui conduceva popolazioni meno evolute a livelli superiori di esistenza. E questo con la stessa complicità di molti che accettarono di rinunciare alla loro libertà per godere dei vantaggi offerti dai nuovi padroni del mondo. Un ruolo fondamentale nella fase della romanizzazione alpina venne giocato dalle élite locali: regoli e capi clan finirono per riconoscere la superiorità dell'organizzazione romana sul territorio e cogliere le potenzialità del sistema economico. I Romani non umiliarono i sudditi, ma li coinvolsero in un'amministrazione condivisa e rispettosa delle tradizioni locali: l'idea di base, infatti, non fu mai quella di opprimere i vinti, ma di trasformare popoli diversi in un popolo unico, con un'unica identità, quella di Roma.
Le modalità di questo processo di romanizzazione obbediscono al principio dell'inclusione. La forza inclusiva e assimilatrice della politica romana si basava sul meccanismo della concessione della cittadinanza ai vinti che, seppur liberi di conservare le loro tradizioni, erano giuridicamente equiparati ai vincitori. L'elemento di coesione dell'impero romano, ciò che ne ha consentito la nascita e la lunghissima durata, va individuato nel diritto esteso al maggior numero possibile di persone. Non basta la forza delle armi per tenere un territorio. Nel 49 a.C. Cesare estese il diritto romano alle comunità cisalpine che ancora ne erano escluse. Numerosi popoli alpini rimasero tagliati fuori da questo provvedimento perché non adeguatamente romanizzati o riottosi a qualunque forma di omologazione, ma Roma attivò una serie di strategie per avvicinarli, inglobarli, conquistarli e, indubbiamente, diritto, urbanizzazione e viabilità furono i veicoli principali di questa strategia. Roma esportò con generosità il proprio modo di vivere e condivise oneri e onori nei territori di nuova conquista. Nella realizzazione di questo progetto rivestì un ruolo fondamentale il processo di urbanizzazione, di cui l'Urbe si rese promotrice attraverso la creazione di nuove città e la valorizzazione e l'ampliamento di quelle esistenti.
Lo strumento più efficace di romanizzazione fu proprio la costruzione di città. Quali caratteristiche presentano le città dei territori prealpini e alpini?
Le caratteristiche di queste città rispecchiano l'obiettivo ultimo della propaganda augustea, ovvero la pace: erano per lo più città prive di mura o con mura non pensate per la difesa, ma solo per la definizione simbolica dello spazio; erano città dove si praticava un intenso scambio tra Romani e montanari pensato per favorire l'omologazione. Prendiamo il caso di Segusio, una città che, nonostante le modeste dimensioni, aveva un grande foro con un tempio, l'arco di Augusto, il palazzo del governo, la tomba di Cozio, numerose residenze, l'anfiteatro. L'arco non era semplicemente un varco, ma un elemento simbolico di romanità e un sostegno del messaggio iconografico che si leggeva nel frontone; l'heroon di Cozio non era soltanto la tomba di un re indigeno, ma il monumento funebre di colui che aveva siglato il patto con Augusto, garantendo l'incolumità dei segusini; il foro non era il solito luogo di mercato, ma la sede per eccellenza dell'incontro e dello scambio interetnico e interculturale. Coloro che passavano sotto l'arco lungo la strada delle Gallie dovevano percepire che l'impero romano aveva posto sotto controllo la strada, a garanzia di sicurezza per chi vi si inoltrava. Tutti questi edifici, portici, tempio, arco, appaiono il frutto di un disegno attento realizzato da progettisti e maestranze avvezze all'architettura monumentale, chiamati in loco con lo scopo di trasferire in ambito provinciale soluzioni proprie di Roma e di trasformare una piccola comunità di montanari in una vera e propria città romana.
Con quali modalità i Romani assorbirono i popoli alpini all'interno della loro compagine politica? Ci faccia pure qualche esempio...
Gli studiosi ipotizzano numerose situazioni diplomatiche risolte mediante trattati, le cui clausole non conosciamo. I popoli alpini si impegnavano a rispettare le regole di Roma, a curare le strade, ad accompagnare i viaggiatori lungo i percorsi in quota e i Romani badavano a rispettare la loro autonomia socioculturale, le loro tradizioni, offrendo ai più ricettivi la cittadinanza. Naturalmente, le Alpi non entrarono nella romanità in modo indolore, senza che i montanari opponessero resistenza: bisogna ricordare che la storiografia antica registra soltanto il punto di vista di Roma, per cui delle eventuali resistenze non abbiamo quasi traccia.
Nelle Alpi Cozie la relazione con gli indigeni si concluse con un trattato fra il regolo indigeno Cozio e Augusto. Cozio depose il proprio titolo regale in cambio di una carica romana, la prefettura, vitalizia ed ereditaria, fu inserito nel ceto equestre ed assunse un nome romano. Da quel momento, suggellato tra il 9 e l'8 a.C. e descritto nel fregio dell'arco di Susa, i montanari della Valle di Susa si trovarono ad essere parte dell'impero romano. I Salassi della Valle d'Aosta conobbero, al contrario, un trattamento duro, conseguenza della lunghezza e durezza del contrasto con Roma: nel 25 a.C. essi furono quasi del tutto spazzati via e nel loro territorio, conquistato con la forza delle armi, fu dedotta una colonia, Augusta Praetoria, con l'apporto di tremila veterani romani che alterarono per sempre la facies locale. I Camunni della Val Camonica, sottomessi nel 16 a.C., persero la loro autonomia e furono aggregati sotto il profilo amministrativo e tributario alla colonia di Brixia (Brescia). Nella Valle dell'Adige fu impiantato il centro di Tridentum. In questa zona non si segnalano particolari dissidi con i montanari e Trento diventò presto una splendida città romana nella quale confluivano montanari e valligiani della zona.
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Una strada romana nei pressi di Bard, in Valle d'Aosta
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Quale fu l'atteggiamento dei montanari davanti all'avanzata romana?
I montanari più ambiziosi accolsero i vantaggi della vita in città, dove risiedevano i Romani e si praticavano gli usi e i costumi della capitale. In città ai montanari si aprivano vere e proprie possibilità di carriera: per alcuni era possibile partecipare alla vita pubblica, ricoprendo le magistrature ordinarie, le cariche religiose, entrare nella curia, cioè nel senato locale che ospitava i personaggi più abbienti, patroni e cavalieri, ed esibire concretamente la propria ricchezza attraverso atti evergetici. Possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita e il proprio status sociale erano offerte anche ai tanti Romani o Latini che in montagna si erano trasferiti. Per un piccolo contadino laziale che apparteneva al proletariato e viveva dell'elemosina del suo patrono la possibilità di trasferimento in una città alpina di nuova fondazione costituiva un'opportunità di affrancamento sociale e offriva prospettive concrete di miglioramento delle condizioni economiche, considerando che le nuove città avevano bisogno di manodopera, di maestranze, di artigiani, offrivano case per tutti e campi da coltivare.
In un capitolo affronta il tema relativo alla religione alpina. Cosa sappiamo del rapporto che i montanari avevano con il divino?
La particolarità ambientale e morfologica della montagna era espressione di una ricchissima varietà di manifestazioni del divino. Il contesto geomorfologico alpino e prealpino era popolato di divinità adatte alle caratteristiche dei luoghi, alle esigenze e alle abitudini degli uomini e delle donne che li abitavano. I culti tradizionali erano praticati presso santuari comunitari, boschi, grotte e sorgenti sacri. Sulle Alpi di età romana la tipologia del sacro attingeva a un intreccio di fenomeni di assimilazione di culti locali presenti nel territorio da tempi antichissimi, di manifestazioni di conservatorismo proprie dei luoghi marginali, di impianto originale di divinità romane legate alle tradizioni dei Romani conquistatori. Questa attitudine inclusiva valeva per tutto l'impero: ovunque i Romani, nel corso della loro espansione, fecero i conti con ambienti diversi e con popoli devoti a specifici culti, che i Romani non sradicarono mai. Li adattarono, semmai, alla ritualità romano-italica. Per fare qualche esempio, il dio celtico Poeninus, protettore dei viaggiatori in montagna, viene invocato come Summus Poeninus o Optimus Maximus Poeninus: Optimus e Maximus erano aggettivi regolarmente riferiti a Giove, a dimostrazione dell'avvenuta sovrapposizione tra il dio celtico e il dio romano. E ancora: il dio gallico Albiorix, protettore dei viandanti, a volte è assimilato a Marte, altre ad Apollo.
Sulle Alpi sono attestati culti femminili di sostrato celtico; mi riferisco soprattutto al culto delle Matres. Quale funzione avevano queste divinità? È possibile stabilire se fosse loro attribuito un particolare culto femminile?
Sulle Alpi la realtà divina si articolava in una serie di presenze femminili che giocavano un ruolo importante nella devozione popolare. Penso alle Matres, Nutrices, Dominae, Matronae, Iunones, Fatae, attestate in Cisalpina e in Gallia, secondo alcuni studiosi non dee, ma madri ancestrali, venerate con diversi nomi nei paesi celtici e germanici. Le Madri avevano il compito di veicolare un insieme di forze positive a beneficio del fedele che a loro si affidava per ricevere protezione e fertilità. Si ritiene che in alcuni contesti alpini le Matrone avessero una funzione specifica legata alla protezione dei viaggiatori lungo le strade: la concentrazione di tale devozione lungo la via verso le Gallie che da Augusta Taurinnorum, per Ad Fines, Segusio e sino al valico del Monginevro (non a caso chiamato Mons Matrona) conduceva sull'altro versante alpino, appare sospetta. In Valle di Susa conosciamo anche un probabile luogo di culto, localizzato nei pressi di Bussoleno; un'analoga ipotesi è stata fatta per la località Tuberghengo di Viù, in Valle di Viù. Le Matrone sono note anche in Valle d'Aosta. Non possiamo escludere che a queste divinità alpine venisse attribuita una specifica ritualità femminile, ma i documenti epigrafici di età romana non vanno in questa direzione, e non soltanto perché i dedicanti degli ex voto sono quasi tutti uomini e uomini erano coloro che si mettevano in marcia per attraversare i colli: in questo territorio, molto più che in altri, la funzione protettrice delle Matrone si collega con il controllo delle strade, che è materia strettamente politica. Augusto e i suoi successori fecero in modo che le strade fossero rese agevoli e sicure e legarono saldamente i culti indigeni con il culto imperiale. L'abbinamento delle Matrone con altre divinità del pantheon romano denuncia la precisa volontà politica di integrare gli elementi cultuali indigeni nella cornice del politeismo romano più ortodosso.
Quale messaggio si augura possa arrivare a tutti coloro che avranno il piacere di dedicarsi alla lettura di questo libro?
Il mio obiettivo era quello di comunicare il grande insegnamento che la storia delle Alpi in età romana può offrire oggi. L'unità dell'impero romano non si costruì sull'esclusività identitaria dei Romani, ma attraverso la composizione di differenti realtà etniche e culturali. Nell'Europa attuale in cui si guarda alle piccole patrie e si innalzano muri e barriere, sono proprio le Alpi a ricordarci che Urbs (la città di Roma) è anche Orbis (il mondo), che il locale è inscindibile dal globale. Le Alpi non costituivano una barriera, ma una cerniera in grado di mettere in comunicazione il Mediterraneo con l'Europa, un territorio di incontri e di scambi. Nelle Terre Alte persone provenienti da diverse zone dell'impero convivevano nel rispetto delle leggi romane. I popoli alpini di oggi nascono da complessi processi di ibridazione con le aree extra-alpine e da lunghi processi storici, politici, culturali, cui hanno contribuito popoli e culture diversi. Per questo nel libro non si parla mai di "identità" alpina, temine ambiguo e pericoloso in un'epoca come la nostra in cui si diffondono a macchia d'olio ansie identitarie e tendenze al particolarismo.
Come studiosa del mondo antico ho avvertito la necessità di far conoscere l'attualità e la validità della lezione donataci dagli studi antichi, che spesso vengono definiti inutili. I Romani possono insegnarci ancora tante cose!
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