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sabato, 02 marzo 2019 20:50 |
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Francesca Bianchi
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A Cagliari, presso il Museo Archeologico Nazionale, è allestita la bella mostra Donna o Dea. Le raffigurazioni femminili nella preistoria e protostoria sarda, che per la prima volta riunisce la più ricca collezione di manufatti della preistoria isolana a confronto con alcuni tra i più antichi e famosi reperti peninsulari.
FtNews
ha intervistato l'antropologa culturale Silvia Fanni, ideatrice e curatrice della mostra insieme alle archeologhe Laura Soro e Marcella Sirigu e a Consuelo Congia, e con il supporto e la validazione scientifica di Carlo Lugliè, docente di Preistoria all'Università di Cagliari.
La dott.ssa Fanni ha raccontato che l'idea di questo progetto espositivo è nata con l’obiettivo di mettere in risalto alcune raffigurazioni femminili presenti dalle fasi preistoriche fino alla protostoria sarda. Partendo dalle più antiche espressioni artistiche dell’arte paleolitica, con la famosa Venere di Savignano, databile a circa 25.000 anni fa ed arrivata direttamente dal Museo delle Civiltà - Museo preistorico etnografico "Luigi Pigorini" di Roma, prestigioso manufatto che accoglie i visitatori all'inizio del precorso espositivo, passando dalle volumetrie classiche del Neolitico medio, si giunge alle raffigurazioni di donne nuragiche, descritte attraverso una resa stilistica essenziale e solenne.
L'antropologa ha affermato che a corredo della mostra, che resterà aperta fino al prossimo 12 maggio, sono previsti momenti di approfondimento e numerosi appuntamenti, non solo di ambito archeologico e antropologico-etnografico, ma anche sociologico, con forti richiami all’attualità. In merito la studiosa ha sottolineato che il legame tra le prime comunità antropiche e i giorni nostri è rappresentato dal telaio di Maria Lai, che con la sua opera "La Terra" (1968) rappresenta il simbolo narrativo della mostra e l'elemento di raccordo tra passato e presente.
Silvia Fanni, che si è soffermata anche sul motivo per cui è stato deciso di non mettere in evidenza il concetto di "Dea Madre" o di "Grande Dea" in riferimento a queste statue, ha espresso il sincero auspicio che, in una fase storica profondamente regressiva come quella che stiamo vivendo, questa mostra possa costituire un'importante occasione di riflessione per recuperare il ricordo e la memoria del ruolo fondamentale che le donne hanno ricoperto nella storia.
Dott.ssa Fanni, la mostra Donna o Dea. Le raffigurazioni femminili nella Preistoria e Protostoria sarda, da Lei ideata e curata insieme alle archeologhe Laura Soro e Marcella Sirigu e la collaborazione di Consuelo Congia, con il supporto e la validazione scientifica del prof. Carlo Lugliè, espone la più ricca collezione di manufatti della preistoria isolana a confronto con alcuni tra i più antichi e famosi reperti peninsulari. Come è nata l'idea di allestire questo emozionante viaggio lungo il tramonto del Paleolitico e attraverso l’età dei metalli?
L’idea di realizzare questo “viaggio narrativo” nella memoria delle raffigurazioni femminili nasce, oltre che da un’evidente passione per la ricerca del nostro passato, anche dall'esigenza di tentare di interpretare le idee di uomini e donne vissuti tanto tempo fa, al fine di cercare di avere una visione antropologica di cosa e chi rappresentavano queste numerose immagini che accomunano non solo le varie facies culturali del bacino del Mediterraneo, ma di tutta l’Europa. Ci tengo a sottolineare che è un progetto ideato interamente da uno staff femminile con il valido supporto del prof. Carlo Luglié, docente di Preistoria e Paletnologia presso l’Università di Cagliari.
Donna o Dea: perché un titolo così enigmatico? E' possibile, secondo Lei, tentare di risolvere il mistero?
Il titolo, lo abbiamo detto più volte, è un enigma e come tale rimarrà, anche se abbiamo provato ad analizzare ed interpretare, nel rispetto delle società arcaiche, i concetti simbolico-religiosi forse e intimi che si celano dietro ciascuna raffigurazione. L’archeologia ci ha permesso di iniziare questo percorso con alcuni dei manufatti più antichi del Paleolitico italiano a confronto con quelli sardi, per poi, attraverso un lavoro multidisciplinare e, quindi, con l’ausilio dell’antropologia, di etnologia ed etnografia, della sociologia e della psicologia, arrivare ad affrontare le tematiche della figura femminile in chiave contemporanea, offrendo spunti di riflessione sul motivo per cui oggi, dopo numerosi millenni, la donna non è più una dea, nell’accezione sociologica di ruolo rispettato, protetto e venerato.
Come è strutturato il percorso espositivo che attende i visitatori?
Il percorso lo abbiamo studiato cercando di individuare le esigenze dei visitatori che troppo spesso vengono avvolti da un vortice di parole, concetti ed interpretazioni che, oltre ad essere soggettivi, riteniamo siano uno strumento che spesso distrae chi visita una mostra. I manufatti, per la loro unicità e preziosità insita nella loro materia e lavorazione, sono in grado di dialogare direttamente con coloro che vogliono conoscere. Un percorso emozionale, come oggi si tende a dire, che lascia ai visitatori la suggestione intima e individuale. Coloro che invece vogliono approfondire le tematiche suggerite trovano supporto nelle audio guide e nel catalogo, oltre che nella possibilità di usufruire della visita guidata con personale esperto. Sono 5 i temi che attendono il visitatore; il primo affronta le origini delle raffigurazioni femminili nel Paleolitico, per poi passare alle raffigurazioni delle prime comunità agricole con le statue steatopigie e le loro evoluzioni stilistiche: dalle volumetrie classiche alle stilizzazioni geometriche. Un altro tema è quello delle raffigurazioni femminili nel mondo dei morti, statue che accompagnano i defunti nel viaggio ultraterreno. Attraverso l’analisi dei contesti funerari si apre il tema della parità di genere nel riti di seppellimento, nell’alimentazione e nella cura medico-religiosa, come ad esempio i casi studiati e attestati dalla ricerca in merito alle trapanazioni craniche. Poi si affronta il tema delle attività attestate nella sfera femminile, che dal Neolitico giungono fino a noi, che abbiamo voluto intitolare “la fatica delle donne”: la tessitura, che diventa anche il leitmotiv della nostra mostra, attraverso il telaio di Maria Lai, opera di alto contenuto simbolico della nota artista contemporanea, o la produzione ceramica, intesa come attività per soddisfare le esigenze alimentari della comunità, in modo particolare per proseguire e garantire la sopravvivenza dei piccoli dopo lo svezzamento. Quindi accudimento della prole e della comunità per mano delle donne. Un altro tema che introduce parità di genere nelle epoche lontane è l’ornamentazione e l’apparire. Si conclude con le raffigurazioni femminili della fase protostorica, con le statue di bronzo di donne nuragiche che evidenziano un chiaro mutamento sociale e dove forse il ruolo della donna si avviava verso un cliché vicino alla nostra contemporaneità. Ruoli regali sì, ma sempre affiancati a figure maschili egemoni, guerrieri e capi tribù. La chiusura della mostra è dedicata alla demoetnoantropologia, che vede ancora oggi attività del mondo femminile concettualmente non distanti dalle fasi preistoriche e protostoriche. Un telaio tradizionale di fine ‘700 rappresenta l’epilogo del nostro racconto fatto di donne, fatto da donne e, forse, di grandi DEE.
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Telaio tradizionale sardo di fine Settecento
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Si può ravvisare una continuità, nel corso dei millenni, dei linguaggi figurativi adottati nella rappresentazione della figura femminile? Come si è evoluto il sistema simbolico, metaforico e spirituale degli uomini vissuti in Sardegna?
Domanda molto interessante che merita un approfondimento, infatti solo l’analisi dei canoni simbolici di un linguaggio figurativo così antico potrebbe essere il tema per una prossima mostra… Tuttavia la nostra analisi appena avviata ci permette di poter affermare che ci sono elementi segnici di forte richiamo simbolico che perdurano nel tempo. Un esempio è la posizione delle raffigurazioni, le braccia sul grembo o le braccia sui fianchi, come le statue a traforo del Neolitico finale e del Calcolitico, che ricalcano una gestualità forte e familiare a tutte le donne, noi comprese, un gesto quasi biologico: quello di aver le braccia sui fianchi, come schematicamente si ritrova anche nei grandi vasi con le doppie anse. Il vaso, infatti, secondo uno studio etno-antropologico riconduce al corpo di donne: un contenitore, come un ventre gravido. Sull’aspetto spirituale occorre essere cauti: parlare di spiritualità e religione non è assolutamente facile, anche perché daremmo una valutazione basata sulla nostra soggettività e sulla nostra cultura.
La Venere di Savignano, giunta a Cagliari direttamente dal Museo delle Civiltà - Museo preistorico etnografico "Luigi Pigorini" di Roma, apre il percorso espositivo. La scultura, risalente al Paleolitico, fu rinvenuta nel 1925 durante gli scavi di un edificio presso Savignano sul Panaro, in provincia di Modena. Come mai avete voluto una dea non sarda in apertura della mostra?
Come potevamo non inserire la splendida Venere di Savignano? Un capolavoro datato circa 30.000 anni fa (Paleolitico Superiore – Gravettiano), che ha permesso di introdurre il nostro viaggio. Una delle più belle statue e rappresentazioni femminili di un passato molto lontano, rinvenuta nel territorio italiano. Le forme di questa statua sono davvero confortanti e rimandano ad una chiara enfasi del femminile e del materno. É doveroso ringraziare il Museo Pigorini per la collaborazione e la fiducia riposte nel nostro progetto.
La cassa con la statuetta contenente la Venere di Savignano è stata aperta in diretta nel corso della conferenza stampa di presentazione della mostra, lo scorso dicembre. Quali emozioni ha provato nel momento in cui ha potuto ammirare dal vivo questa statuina?
Sì, è vero, la cassa che custodiva la Venere di Savignano e la Veneretta di Bracciano - un’altra splendida statuina rinvenuta in un contesto subacqueo nel lago di Bracciano ed attribuibile ad una fase neolitica, anche se l’iconografia della statua rimanda a fasi epipaleolitiche, quindi a strati più antichi del medesimo sito - è stata aperta in occasione della conferenza stampa, un fatto un po’ insolito, ma sia noi dello staff organizzativo che la direzione del Museo avevamo davvero il desiderio di osservarle da vicino. Ciò che si è provato non si può descrivere: manufatti così piccoli, ma con un forte potere emozionale, riescono a farti commuovere, per lo meno a noi è successo questo.
Perché, secondo Lei, queste antichissime statuette suscitano in noi ancora così tante emozioni?
Per fortuna ancora si provano emozioni nel guardare ed ammirare questi manufatti. Se li osserviamo bene possiamo cogliere una tecnica esecutiva e un progetto ideologico e concettuale che è assolutamente contemporaneo e denota un’avanzata tecnologia che traduce le idee in azioni. E poi, forse, anche perché siamo, nonostante l’apparenza, ancora legati a quel mondo ancestrale che inevitabilmente ci appartiene, o forse noi apparteniamo a quel mondo.
Quale messaggio, quali idee trasmettono questi reperti senza tempo?
Che siamo tutti legati da un filo, come le trame dei tessuti, idea di appartenenza e di discendenza, intrecci culturali che varcano i confini del tempo e dello spazio geografico.
Che immagine ci forniscono della cultura che li ha prodotti? Cosa ci rivelano dell’ambiente sociale, economico, culturale e religioso in ci sono nati e, soprattutto, cosa ci dicono della condizione femminile?
Sulla base dei dati scientifico-archeologici, le strutture sociali in epoche così lontane da noi, come nelle fasi pre-neolitiche, in cui esistevano società antropiche semplici, basate su un'economia di consumi immediati, come la raccolta e la caccia, dove la figura femminile aveva un ruolo di grande rilevanza: a lei tutto era dovuto, lei era la sola ad avere capacità riproduttive e a garantire la discendenza, non solo tra gli uomini, ma anche per il mondo animale e per quello vegetale. Un ciclo di nascita, vita e morte al femminile. In queste comunità antropiche è probabile si pensasse che gli elementi femminili gestissero appieno gli eventi naturali. Per tale motivo si riconosceva la sacralità del femminile. Questo non escludeva azioni di violenza o di aggressività tra i membri di una comunità, ma non per motivi di genere, almeno così pensiamo. I processi di disparità e di subalternità forse iniziano nelle fasi di mutamento sociale che i dati storico-archeologici indicano nella fase di passaggio dal Paleolitico all'inizio del Neolitico con l'avvento dell'agricoltura, per poi esplodere nell’età dei metalli, dove le strutture sociali si modificano in società più strutturate, dove iniziano i controlli del territorio per proteggere le risorse del sottosuolo, dove è l'uomo che si occupa del lavoro della terra, togliendo autonomia gestionale ed economica alla donna. Forse iniziano in questo momento a costituirsi gruppi di guerrieri, lotte tra clan e per natura, si sa, il maschio è più forte della donna, lo vediamo tra tutti gli animali. La forza porta a proteggere, ma a volte la forza porta ad uccidere senza pietà, per un senso di possesso, per un desiderio di vendetta, per trarre un beneficio individuale.
Ci fu un momento in cui la rappresentazione femminile connessa alla fertilità, alla generatività e all'abbondanza iniziò a perdere valore in Sardegna?
Forse non è corretto dire che la rappresentazione femminile connessa alla fertilità, alla generatività e all'abbondanza iniziò a perdere valore: il valore rimase immutato e lo è ancora oggi, almeno presso i popoli occidentali. È probabile che sia emerso il potere maschile, rappresentato simbolicamente. L’uomo ad un certo punto prese coscienza della sua attiva partecipazione alla nascita; questo elemento, unito alla forza, avvalorò e modificò il suo ruolo.
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Statua femminile da Cuccuru is Arrius, Cabras (OR), Neolitico Medio
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Si evita quasi sempre una presa di posizione netta in merito alle interpretazioni di queste statuette femminili arcaiche. Voi stesse non parlate mai di "Grande Madre" o di "Grande Dea". Perché?
Noi non abbiamo voluto mettere in evidenza il concetto di Dea Madre, di Grande Dea, perché le statue per noi sono raffigurazioni, sono rappresentazioni di persone o di idee. Chi fossero queste persone e cosa rappresentassero non possiamo dirlo con certezza, l’abbiamo detto dall’inizio: Donna o Dea? Un enigma. La divinizzazione di un essere vivente avviene attraverso una serie di processi culturali, spirituali, intimi che noi non possiamo oggi definire; non possiamo penetrare nell’intimo di persone che non abbiamo mai conosciuto. Una qualche forma di spiritualità esisteva e governava la vita di queste comunità, si pensi alle comunità primitive che ancora oggi vivono in alcuni continenti. Ma sono viventi, abbiamo potuto osservarle e conoscere il loro concetto di religione e di spiritualità, siamo entrati in contatto con loro anche troppo violentemente, ma 25.000 mila anni fa? 10.000 mila anni fa? Come facciamo arbitrariamente a dire e a confermare che ci fosse un culto dedicato alla Grande Dea o un culto della Terra o, magari, un culto dedicato alla Donna?
Cos'era, secondo Lei, il culto della Dea e che peso hanno avuto in merito le ricerche di Marija Gimbutas, studiosa che con instancabile passione ha indagato i culti della Vecchia Europa dell'età neolitica?
Non ci sentiamo di dare una connotazione precisa di un culto a noi ignoto, però l’idea che possiamo esprimere, cercando di fare un viaggio nel passato, è quello di provare ad immedesimarci in quelle donne e in quegli uomini, persone che crediamo avessero una grande attenzione e un rispetto per il naturale, per gli eventi ciclici della vita; la vita era sacra e pertanto era rispettata e sacralizzata. E' verosimile che esistesse un culto dedicato alla donna in qualità di madre genitrice e alla terra, ai suoi frutti, sia del regno animale che vegetale, ma anche del regno minerale. Oggi ci sono gruppi di donne che si muovono alla ricerca del sacro, del divino, non come sciamane impazzite che vogliono andare controcorrente, attenzione, ma come persone che vanno a cercare l’intimo della vita, dei sentimenti della nascita delle relazioni, del sapere femminile, e la Gimbutas ha dato questo impulso. Una donna non pioniera, ma selvaggia, un ritorno alle origini. Lei si è spinta oltre i confini accademici, è andata a toccare corde che hanno suscitato dubbi e perplessità. Forse i suoi studi, ad un certo punto, hanno preso una strada non supportata dal dato scientifico, ma è stata coraggiosa e non aveva certo paura delle critiche. Il suo lavoro oggi viene considerato un importante contributo che va approfondito, discusso e, per certi aspetti, confermato.
Secondo Lei, come si spiega l'oscurantismo subito da questa studiosa e dal suo metodo di ricerca da parte della cultura ufficiale?
Chi non l’ha considerata o l’ha oscurata forse non la riteneva valida, forse perché il mondo accademico è sempre stato gestito da un potere maschile, sessista???
Tornando alla mostra, il legame tra le prime comunità antropiche e i giorni nostri è rappresentato dal telaio di Maria Lai. Come mai avete scelto questa artista contemporanea? Cosa narrano i suoi telai?
Lavoriamo tutte prevalentemente nel settore archeologico, ma l’idea che l’archeologia sia una disciplina indipendente e solitaria non ci piace; tutte le discipline si supportano e si completano. L’arte contemporanea non è diversa dai manufatti del passato e Maria Lai era il giusto punto di unione tra passato e presente. Dobbiamo sdoganare i musei archeologici come casseforti: sono luoghi, spazi della memoria, sì, ma anche luoghi di incontro tra le varie memorie. Un’opera d’arte contemporanea, come in questo caso, ha una sua importanza concettuale. I telai di Maria Lai sono emblematici, parlano di storie, di intrecci di relazioni, fili che legano la vita degli uomini.
Come è strutturato e di quali contributi si avvale il catalogo che accompagna la mostra?
Il catalogo è un prodotto editoriale bilingue (italiano e inglese) di cui siamo anche editori, dotato di un apparato di schede di reperti e temi di approfondimento. I contributi sono stati prodotti da studiosi e ricercatori di ambito archeologico e antropologico.
Quali riflessioni si augura che questa splendida mostra possa suscitare in tutti coloro che avranno il piacere di visitarla?
Ci auguriamo che il visitatore si senta avvolto da una suggestione emotiva che gli faccia sorgere pensieri e riflessioni che lo inducano a porsi domande sul come e perché oggi, noi tutti, ci ritroviamo a non avere più rispetto per nessuno, per le donne in modo particolare, per i bambini e per la natura. Siamo una comunità in fase regressiva e bisogna cercare di educare le nuove generazioni alla memoria di chi eravamo.
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