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giovedì, 06 dicembre 2018 17:48 |
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Ravanusa, necropoli di via Olimpica. Museo Archeologico. Vaso plastico di produzione attica a figure rosse raffigurante una scena erotica tra un mulo (o un asino) e un Satiro (V sec. a.C.)
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Francesca Bianchi
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FtNews
ha intervistato la dott.ssa Simona Modeo, insegnante di lettere ed archeologa, che recentemente ha dato alle stampe il libro Dioniso in Sicilia. Mythos, Symposion, Hades, Theatron, Mysteria, una completa ed approfondita trattazione del culto e del mito del dio polymorphos nell'Isola. Simona Modeo, che nel corso della sua carriera ha collaborato con le Soprintendenze per i Beni Culturali e Ambientali di Caltanissetta e Palermo e ha partecipato a numerose campagne di scavi in Sicilia e in altre regioni italiane, dal 2012 è Presidente Regionale della benemerita Associazione culturale SiciliAntica.
Nel corso della nostra lunga ed intensa conversazione, ha presentato il suo ricco lavoro, articolato in cinque sezioni, corrispondenti ad altrettanti aspetti legati alla figura di Dioniso: "Mythos"; "Symposion"; "Hades"; "Theatron"; "Mysteria". Ha spiegato che questo saggio, partendo dalle numerose testimonianze archeologiche disponibili, esamina scrupolosamente la pervasiva presenza di Dioniso nella religiosità e nella vita quotidiana del mondo siceliota e anche di quello indigeno. A tal proposito, ha analizza anche i contesti cultuali delle poleis greche e di alcuni centri anellenici, dove era probabilmente venerato Dioniso, il cui culto in Sicilia sembra essere, in alcuni casi, intimamente collegato a quello di Demetra e Kore.
Dott.ssa Modeo, il Suo ultimo libro, intitolato Dioniso in Sicilia. Mythos, Symposion, Hades, Theatron, Mysteria, rappresenta una completa trattazione del culto e del mito di Dioniso ed evidenzia la centralità della sua presenza nella religiosità e nella vita quotidiana del mondo siceliota e di quello indigeno, soffermandosi sulle trasformazioni del dio nelle sue varie manifestazioni. Quali sono le peculiarità del culto dionisiaco in Sicilia rispetto a quello della madrepatria?
Rispetto al culto dionisiaco della Grecia propria va evidenziato, in particolare, che quello isolano, allo stato attuale della documentazione archeologica, non è testimoniato dalla presenza di santuari o templi destinati esclusivamente al culto del dio, che nella Sicilia greca pare venisse venerato in santuari dedicati ad altre divinità (Demetra e Kore, Afrodite, Atena), oppure nello spazio privato del simposio, o ancora nell’ambito di culti domestici.
Come è rappresentato Dioniso nella ceramica attica importata in Sicilia? E' possibile ravvisare differenze nelle rappresentazioni del dio sulle ceramiche magnogreche e siceliote rispetto a quelle presenti sulle ceramiche attiche?
In Sicilia la committenza greca e indigena sembra manifestare una particolare predilezione per l’immagine tradizionale di Dioniso, paterna e regale. In queste scene il dio viene assimilato a Zeus e, come quest’ultimo, si presenta quale garante dell’ordine cosmico e della stabilità della polis, un ruolo che gli fu attribuito, a quanto ci risulta, prima da Sophilos e poi da Kleitias. A differenza dei colleghi attici, i ceramografi magnogreci e sicelioti sembrano mostrare, invece, una maggiore preferenza per le immagini dionisiache di orientamento più personale e privato. In particolare, essi rappresentano l’immagine di un dio che esprime e simboleggia la speranza e l’augurio di un dopo morte felice, di una felicità bacchica, sentita come equivalente a quella erotica, che richiede l’immedesimazione con la divinità e, per quella via, promette un nuovo inizio.
A cosa è legato il polimorfismo del dio, su cui tanto insiste la tradizione antica? Come è rappresentato questo aspetto del dio nella ceramica attica, arcaica e classica, a figure nere e a figure rosse, rinvenuta nelle necropoli delle città siceliote e degli insediamenti indigeni dell'Isola? Che tipo di evoluzione hanno subito nel corso del tempo questi stilemi iconografici?
Come dice Marcel Détienne, sfuggente e proteiforme, Dioniso non cessa di essere tale nelle interpretazioni cui è soggetto, oggi come ieri. Dioniso, infatti, si può considerare il patrono di tutte le metamorfosi e la sua polymorphia non è legata soltanto alle sue “apparenze multiple” e alla svariate teofanie che anticamente venivano a lui attribuite, ma in un certo senso rispecchia anche i differenti modi in cui il dio veniva rappresentato. La sua figura divina, infatti, incessantemente si trasmuta e si trasfigura, poiché è egli stesso ad imprimere la dinamica della metamorfosi: uomo barbuto, efebo sorridente, toro, serpente, grappolo d’uva, etc. In età arcaica, l’immagine di Dioniso che ci restituiscono i vasi portati alla luce in Sicilia è quella “tradizionale”, creata, secondo Cornelia Isler-Kerenyi, in ambito cicladico nel VII sec. a.C., adottata successivamente dai ceramografi attici, a partire da Sophilos, e rimasta poi quella corrente per tutto l’arcaismo: una dignitosa e misurata figura di padre, barbata, che indossa chitone e mantello lunghi. Così si presenta non solo quando viene raffigurato stante di fronte ad una figura femminile (in diversi casi identificabile con Arianna) o al centro del suo thiasos di Menadi, Satiri o Sileni, ma anche quando è seduto o semidisteso da simposiasta, oppure nei rari casi in cui è in movimento insieme ai suoi seguaci. Tali formule iconografiche sono attestate con una certa frequenza sulla ceramica attica rinvenuta in Sicilia. Questa figura paterna, autorevole e rassicurante, raffigurata anche su altre classi di materiali (soprattutto statuette e monete), intorno al 430 a.C. subisce una metamorfosi radicale: Dioniso si presenta ora spesso giovane, senza barba, praticamente nudo, in rilassata posizione semidistesa. Così lo ritroviamo in versioni varie nell’opera di molti ceramografi. Questa metamorfosi si spiega facilmente con l’influsso esercitato dalla statua ben visibilmente collocata da Fidia nel frontone est del Partenone. Il nuovo Dioniso si presenta non come un padre, ma come un figlio, e come tale egli era immaginato, insieme agli altri figli di Zeus, quale esecutore dell’ordine del dio supremo e garante della stabilità e della continuità di quell’ordine.
In Sicilia, la committenza greca ed indigena sembra manifestare una maggiore preferenza per l’immagine tradizionale di Dioniso, paterna e regale, anche se nel caso del mondo indigeno tale preferenza appare evidente almeno fino alla prima metà del V sec. a.C. e non nel periodo successivo, per il quale, allo stato attuale della ricerca archeologica, sono scarsamente attestate sui vasi attici le scene dionisiache in cui è presente il dio.
Va sottolineato che il polimorfismo di Dioniso è stato considerato da Cornelia Isler Kerenyi un fenomeno legato, probabilmente, al cosiddetto “enoteismo”, ovvero alla devozione personale che, senza respingere o trascurare le altre, si focalizza su una divinità. Se esso, infatti, per definizione, si rivolge al dio in situazioni e condizioni personali diverse, è logico che la divinità assuma figure differenti, adeguate a queste situazioni.
La realtà dionisiaca viene rappresentata anche attraverso diversi elementi zoomorfi e fitomorfi. Sulla base delle testimonianze archeologiche e della documentazione letteraria, è possibile affermare l'esistenza di una predilezione per alcuni animali o per alcune piante piuttosto che per altre?
Il mondo dionisiaco viene rappresentato anche da diversi animali e piante considerati sacri al dio ab antiquo. Sulla base della documentazione letteraria ed archeologica, è possibile affermare l’esistenza di una particolare predilezione per alcuni di essi: il capro (o l’ariete), il toro, il leone, la pantera, il cerbiatto, il serpente, l’asino (o il mulo); la vite, l’edera, il pino (o l’abete) e il fico.
Al riguardo va evidenziato che essi sono spesso raffigurati nelle scene dipinte sui vasi di produzione attica o nella coroplastica e simboleggiano lo stretto legame tra Dioniso e la natura primigenia che sta probabilmente all’origine del culto dionisiaco. Tale rapporto con il “selvatico” e con la ferinità è certamente rappresentato dai Satiri, seguaci semiferini di Dioniso. Tra le piante predilette dal dio, un posto di primo piano dovevano sicuramente avere l’edera, che nel mito dionisiaco sembra abbia fatto la sua comparsa per la prima volta subito dopo la nascita del dio, per riparare l’infante dalle fiamme che bruciavano il corpo di Semele, e la vite. Queste piante prodigiose, simboleggianti rispettivamente la vita e la morte, avevano una pregnante valenza escatologica, e probabilmente proprio per tale motivo sono raffigurate, in particolare, sui vasi attici o sicelioti con scene dionisiache rinvenuti all’interno delle sepolture, tanto nelle poleis greche dell’Isola, quanto nei centri indigeni: esse fanno frequentemente da sfondo alle immagini rappresentate; il dio stesso, inoltre, tiene spesso fra le mani tralci o rami di vite e lui e i suoi seguaci sono talvolta incoronati con foglie di edera, soprattutto nelle scene di simposio.
E del thiasos, ovvero dei personaggi che compongono il corteggio che accompagna il dio, che immagini ci restituiscono l'iconografia vascolare e la ceramica attica importata in Sicilia?
Il thiasos è il mitico corteo dionisiaco che accompagna il dio in numerose scene dipinte sia sui vasi attici sia su quelli sicelioti. Va evidenziato che al thiasos mitico, composto da sole Menadi o da Satiri, Menadi e, talvolta, anche Sileni, i quali rappresentavano il corteo originario che aveva accompagnato Dioniso fin dalla sua infanzia, corrispondeva un thiasos rituale composto dai fedeli iniziati ai culti dionisiaci: le donne imitavano le Menadi, le ninfe che avevano accolto e allevato il piccolo Dioniso, gli uomini imitavano Satiri e/o Sileni, anche indossando le maschere semi-equine; nei riti venivano reiterate le tragiche vicende di Dioniso.
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Lipari. Museo Archeologico Regionale. Riproduzione fittile di maschera della Commedia Nuova (il giovane ricciuto), dalla necropoli di contrada Diana (prima metà II sec. a.C.)
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Se si prende in esame la ceramica attica importata in Sicilia, risulta evidente la costante presenza, nelle scene dionisiache, di questi personaggi, che talvolta sono raffigurati insieme a Dioniso, in atteggiamento di premurosi servitori del dio, altre volte da soli, mentre sono intenti a danzare, ad inseguirsi, a banchettare. Nelle scene dipinte sui vasi a figure nere e a figure rosse del VI-V sec. a.C. i personaggi del thiasos, in particolare i Satiri, sono rappresentati mentre eseguono la danza o mentre accompagnano i movimenti del corteo, suonando l’aulos (o il diaulos, il “doppio flauto”), i krotala e il barbitos, strumento a corde dalla sonorità grave, la cui raffigurazione è generalmente associata a quella dei contenitori da vino; altra attività degli ibridi compagni di Dioniso è attaccare le Menadi in movimento che tentano di sottrarsi fuggendo o colpendoli con gli strumenti musicali.
La diffusione del tema iconografico legato alle danze estatiche delle Menadi, talora munite di fiaccola nella cornice di un ambiente notturno, è documentata nelle ceramiche a figure rosse a partire dal V sec. a.C. I personaggi femminili che sorreggono la coppa per bere svolgerebbero in questo contesto figurativo un ruolo prestigioso, probabilmente sacro. Altre donne sono raffigurate mentre danzano in trance o suonano il barbitos: il loro capo abbassato o gettato all’indietro è rappresentato nella tipica posizione che evidenzia gli effetti dello smarrimento procurato dal vino e dall’estasi. Il thiasos dionisiaco è frequentemente rappresentato, con o senza il dio, anche sui vasi di fabbrica siceliota. In particolare, sui crateri sicelioti numerose sono le immagini di Menadi e Satiri che recano nelle mani delle phialai piene di uova: si tratta di un soggetto iconografico che, oltre ad avere un evidente significato funerario ed escatologico, costituisce molto probabilmente un’ulteriore testimonianza del profondo legame tra dionisismo ed orfismo.
L'atto di bere il vino in onore del dio costituiva uno dei momenti fondamentali della relazione tra il dio polymorphos, il vino e i cittadini della polis. Quali erano gli elementi più importanti del rituale del simposio di Sicilia e quali regole comportava? Cosa ci dicono in merito le fonti letterarie e le testimonianze archeologiche rinvenute nei vari centri sicelioti?
Nel mondo greco, e quindi anche nella Sicilia greca, l’atto di bere il vino in onore di Dioniso era privilegio esclusivo degli uomini e rappresentava uno dei momenti più importanti della relazione tra il dio polymorphos, il vino e i cittadini della polis. Comportava un rituale sociale con regole ben precise, le cui tappe erano destinate a provocare nei convitati, progressivamente, un’euforia atta ad esprimere le loro facoltà emotive ed intellettive. La sequenza era scandita in tre tempi logici: mangiare, bere e poi gioire nel komos, il corteo festoso dei banchettanti ebbri. Il bere in comune rappresentava, peraltro, un momento sociale, oltre che sacrale, ricco di simboli e di significati. Il simposio era innanzitutto l’espressione di un gruppo di aristocratici accomunati da un unico sentire (homoioi), dal vincolo del giuramento, persone che lottavano per gli stessi obbiettivi politici ed era fondato sull’etica dell’equilibrio, avendo per modello la giusta mescolanza, simboleggiata dal cratere.
Riguardo alle origini del symposion, lo studioso Oswyn Murray, analizzando fonti letterarie e testimonianze archeologiche e mettendo a confronto usanze orientali ed occidentali, ha formulato la seguente ipotesi: i primi simposi, a cui si partecipava sdraiati, ebbero probabilmente luogo nei territori occidentali piuttosto che nella Grecia propria. Egli ritiene, infatti, che fu in questo contesto, tramite i rapporti stretti con la cultura fenicia, che i Greci vennero a conoscenza di innovazioni essenziali quali l’alfabeto, la polis mercantile autonoma ed il simposio di piacere, il quale, con la sua complessa poesia e con i suoi complessi rituali, forse basati su modelli semiti, fu assimilato nelle colonie occidentali ed importato nella madrepatria greca, per poi giungere a creare la cultura della Grecia arcaica. Tale dato, peraltro, sembra trovare un’ulteriore conferma nelle fonti letterarie, che considerano i simposi occidentali particolarmente lussuosi e soprattutto famosi per i loro eccessi. Secondo Ateneo, le klinai e i cuscini siciliani erano rinomati e per Anacreonte e Dicearco il gioco del kottabos è stato inventato in Sicilia. Spazi destinati al simposio erano certamente presenti nelle colonie siceliote, come attestato dalle fonti letterarie e dalle testimonianze di scavo provenienti dall’abitato antico di alcune apoikiai.
Nel capitolo dedicato al tema della caratterizzazione funeraria di Dioniso in Sicilia, Lei afferma che la dialettica tra sfera del vino e sfera della morte, che risulta evidente presso le culture occidentali (greche, anelleniche e grecizzate), si configura quasi come elemento identificativo di alcuni contesti socio-culturali di frontiera: la netta opposizione tra simposio e ambito funerario, che distingue l'ambiente della Grecia propria, si trasforma, infatti, in ambiente etrusco, italico e coloniale in una dinamica associazione ricca di sottesi valori simbolici ed escatologici. Come si esprimono la connessione tra vino e morte, tra Dionysos e Hades, nelle immagini presenti sulla ceramica attica e su quella siceliota? In quale contesto culturale e religioso è particolarmente evidente questo vincolo tra vino e morte?
La connessione tra vino e morte, tra Dionysos e Hades, esplicitata nel noto frammento eracliteo (lo stesso dio è Ade e Dioniso per il quale infuriano e si comportano come Baccanti), sembra rivelarsi sia attraverso il rituale funerario dell’incinerazione secondaria in cratere, sia attraverso alcune immagini rappresentate sulla ceramica attica e su quella siceliota.
Riguardo all’incinerazione secondaria in cratere, tale rituale è attestato nel V sec. a.C. solo nel mondo greco d’Occidente (soprattutto in Sicilia e, più limitatamente, in Campania, a Cuma, Fratte e Pithecusa) e potrebbe essere collegato a forme di religiosità individuale: un uso rituale strettamente connesso, dunque, ad un’ideologia funeraria.
In merito alle immagini che, tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C, compaiono sulla ceramica attica rinvenuta nell’Isola e, più tardi, seppur raramente, anche in quella di produzione siceliota, va rilevato che esse presentano soggetti iconografici in cui Ade e Dioniso si rendono riconoscibili come un Hades dionisiaco o come un Dionysos infero: l’iconografia di Hades offre lo schema posturale di riferimento, mentre dionisiaci sono di solito gli attributi riservati a questa figura divina, funzionali alla necessità di rivelarne l’identità sostanziale. Si tratta di alcune scene in cui Dioniso è raffigurato seduto ieraticamente di profilo su diphros, talvolta con corona di foglie di edera sul capo, e generalmente accompagnato da Satiri o Menadi, mentre tiene in mano un oggetto che è interpretabile, al contempo, come corno potorio del dio polymorphos e cornucopia di Ade. Nello schema posturale riservato a questa figura divina converge una tradizione artistica pregna di valenze iconologiche. Come ha già evidenziato Cornelia Isler Kerényi, si tratta innanzitutto della convenzione grafica elaborata per comunicare, sulla ceramica attica, l’idea della regalità. La peculiarità della creazione di questa immagine ibrida di Dionysos/Hades è costituita proprio dall’attribuzione a Dioniso di stilemi grafici appartenenti alle divinità infere. Va inoltre sottolineato che quando il dio polymorho è raffigurato in posizione seduta, nella maggior parte dei casi tiene in mano il corno potorio che, come si è detto in precedenza, può essere interpretabile anche come cornucopia del dio dell’Oltretomba.
E' esistito in Sicilia un dionisismo colto, elitario? In caso di risposta affermativa, in che senso, allora, si può parlare di Dioniso come di un dio demotikos?
Dioniso è innanzitutto un dio demotikos, cioè del popolo tutto, che prometteva “liberazione” e che aboliva i ruoli, ricreando un mondo egualitario senza differenze di sesso o di classe. Infatti, come afferma Mircea Eliade, egli è, senza dubbio, l’unico dio greco che, rivelandosi sotto aspetti differenti, affascina e attrae tanto i contadini che le élites intellettuali, i politici, e i contemplativi, gli orgiastici e gli asceti. A partire dal V sec. a.C., però, si affermano, anche in Sicilia, nuove realtà religiose che, nella maggior parte dei casi, attestano l’esistenza di un dionisismo colto ed elitario, improntato a credenze salvifiche, una pratica cultuale di carattere individuale che conoscerà maggiore consenso in espressioni più direttamente misteriche ed iniziatiche in età tardo classica ed ellenistica, sfociando nelle meglio note forme associative di religione bacchica messe al bando dal famoso senatus consultum de Bacchanalibus.
Altra importante sfera di influenza di questo dio garante dell'ordine cosmico è quella del teatro, le cui origini, secondo molti studiosi, vanno ricercate proprio nelle celebrazioni religiose in suo onore. Quali testimonianze autorizzano a sostenere che anche in Sicilia doveva esserci una stretta relazione tra theatron, ierogamia, dionisismo e vita ulraterrena? Cosa ci dice, in tal senso, il materiale rinvenuto nella necropoli greca di Contrada Diana, a Lipari? Come potrebbe spiegarsi, secondo Lei, la presenza delle maschere nelle tombe?
Lo stretto rapporto tra theatron, ierogamia, dionisismo e vita ultraterrena è attestato dalle numerose evidenze archeologiche portate alla luce nella necropoli greca di Contrada Diana, a Lipari, da Luigi Bernabò Brea e da Madeleine Cavalier nella seconda metà del secolo scorso. In particolare, dalle sepolture della necropoli proviene una notevole quantità e varietà di terrecotte teatrali, esposte attualmente presso il Museo archeologico eoliano. La produzione liparese di maschere e modellini di coroplastica teatrale, databile tra la prima metà del IV e la metà del III sec. a.C., costituisce una serie unica per caratteristiche e tecnica di esecuzione, interessantissima sia sotto il profilo archeologico, sia per lo studio del mondo teatrale greco, sia per il suo stretto legame con la sfera oltremondana. Le approfondite analisi tecnico-artistiche cui sono stati sottoposti i reperti, unitamente ad un accurato confronto con le fonti, hanno consentito di rapportare le caratteristiche fisiognomiche delle maschere alle descrizioni dei personaggi dei testi teatrali greci del V secolo.
Riguardo alla loro funzione, Luigi Bernabò Brea ha proposto approfondite ipotesi, al fine di giustificare una produzione così ampia e soprattutto strettamente connessa al mondo dell’oltretomba. Egli ha sottolineato in primo luogo l’evidente interesse dei Liparesi per il teatro, motivando l’assenza di un edificio teatrale nell’isola con l’ipotesi che nel IV-III secolo a.C. esistessero suppletive strutture in materiale deperibile, le quali non si sarebbero conservate; in secondo luogo, ha ipotizzato che la notevole diffusione di queste terrecotte (maschere e statuette) debba necessariamente trovare una spiegazione in una produzione legata al dionisismo e al culto dei morti: la presenza delle maschere nelle tombe potrebbe rappresentare un’offerta a Dioniso per il raggiungimento delle beatitudini in una vita post mortem. Al riguardo va sottolineato che, nell’ultimo quarto del IV sec. a.C., si assiste ad un particolare e significativo fenomeno: nelle tombe liparesi scompaiono i crateri figurati e si affermano nuove forme vascolari come lekanai, pissidi skyphoidi, lebetes gamikoi e vasetti per profumi di varia tipologia, decorate con temi connessi a riti nuziali, spesso associati alle maschere della commedia di Menandro. Si tratta di ceramiche raffiguranti giovani donne colte nell’intimità del gineceo, occupate nella toilette o, fatto interessante, porgenti un dolce sormontato da uova di differenti colori, chiari simboli rispettivamente di festa nuziale ed eterna rinascita. Tale produzione ceramica non doveva, però, essere destinata esclusivamente alle donne, in quanto queste iconografie, interpretabili come scene di preparazione alle nozze, in cui la giovane donna, protagonista della scena rappresentata, in realtà è l’anima (Psiche) che si è distaccata dal corpo, simboleggiavano probabilmente l’unione mistica dell’adepto defunto con il dio: uno hieros gamos, le divine nozze in vista della felicità eterna.
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Siracusa. Museo Archeologico Regionale. Servizio in argento (kylix, tazza e attingitoio) da Megara Hyblaea (II sec. a.C.);
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Quanto alle varie forme di spettacolo presenti in Sicilia, a quali testimonianze letterarie e archeologiche possiamo attingere per cercare di ricostruire la storia del teatro nell'Isola? Ci forniscono informazioni su autori, attori, danzatori e musici?
In Sicilia erano sicuramente presenti varie forme di spettacolo che, come ha evidenziato Luigi Todisco, si sono sviluppate fin dalla prima età arcaica e pur essendo in stretto rapporto con quelle della Grecia propria, hanno seguito un percorso parallelo e dialettico rispetto a queste ultime. In particolare, tra le testimonianze letterarie relative a tale argomento, vanno certamente ricordate quelle sul viaggio di Arione, il più bravo di tutti i cantori che, lasciata Corinto, sarebbe giunto in Italia ed in Sicilia, e quelle sui ditirambografi arcaici; sull’attribuzione a Stesicoro, forse nativo di Himera, dell’invenzione della triade ritmica (strofe, antistrofe, epodo), adottata, oltre che nella melica corale, nella poesia drammatica; sulla composizione delle Etnee e sulla ripresa dei Persiani di Eschilo a Siracusa tra il 471 e il 469 a.C.; sul carattere innovativo e sui rapporti con i comici attici di poeti locali come Epicarmo e Sofrone, mimografo siracusano del V sec. a.C.; sui successi in Grecia di musici come l’auleta Mida di Agrigento, vissuto nella prima metà del V sec. a.C., e sulla popolarità del citaredo Mosco, anch’egli agrigentino degli ultimi decenni dello stesso secolo; sulle esibizioni alla corte macedone di Alessandro il Grande, del thaumatopoios Filistide di Siracusa e sulla produzione fliacotragica di Rintone. Per quanto concerne le testimonianze archeologiche, certamente più numerose di quelle letterarie, va subito evidenziato che diffusi riflessi dell’interesse per lo spettacolo in Sicilia si colgono nell’artigianato già a partire dal VII sec. a.C., ma la produzione di vasi con scene ispirate a performances predrammatiche, a tragedie, a drammi satireschi e a commedie, unitamente alle statuette in terracotta raffiguranti attori o personaggi della farsa fliacica, sono attestati soprattutto tra il V e il IV secolo a.C. Dall’esame dei documenti scritti e materiali disponibili pertinenti all’attività teatrale e alle varie forme di spettacolo di tradizione greca in Magna Grecia e in Sicilia, emerge oggi, con maggiore chiarezza, il progressivo assottigliamento del ruolo propulsivo da essi svolto, sia in quelle stesse aree, sia nel resto d’Italia, all’incirca dal 150 al 50 a.C., fino alla successiva ed inarrestabile dispersione di quella che può essere considerata una delle più vive testimonianze dell’itinerario tra cultura greca ed acculturazione ellenizzante che coinvolse le popolazioni delle regioni meridionali della penisola. Resta, comunque, indubbio che, anche riguardo a theatron e drama, ma non solo, le città greche dell’Italia meridionale e della Sicilia ebbero un ruolo fondamentale nella conservazione e nella trasmissione alle future generazioni di un patrimonio straordinario per il progresso della civiltà occidentale.
Nell'ultima sezione del libro, dedicata ai Mysteria, affronta il tema della diffusione del culto dionisiaco in Sicilia tra l'età arcaica e l'età ellenistica. A quando risalgono le prime testimonianze del culto di Dioniso in Sicilia e quali caratteristiche assunse nell'isola il culto misterico di questa divinità? Stando alle evidenze archeologiche, ci sono casi di città più legate rispetto ad altre al culto del dio polymorphos o casi in cui il culto del dio è associato al culto di altre divinità?
Il culto di Dioniso giunse in Sicilia presumibilmente con i primi coloni greci che a partire dal tardo VIII secolo a.C. fondarono le loro apoikiai lungo le coste dell’Isola. Esso è infatti attestato a Naxos, la più antica città greca di Sicilia, la cui ktisis è collocata nel 734 a.C., che ha restituito una ricca documentazione archeologica afferente al mondo dionisiaco. Le testimonianze materiali attestano che il dio polymorhos doveva essere presente anche nel pantheon di altri centri sicelioti come Katane, Leontinoi, Himera, Zancle e Tauromenion. Le fonti letterarie e le evidenze archeologiche rivelano che il culto del dio ebbe peraltro un posto di primo piano nella città di Siracusa, dove Dioniso era venerato con l’epiteto di Morychos (“l’imbrattato”), in quanto durante la vendemmia i contadini erano soliti cospargere di succo d’uva e di fichi verdi il prosopon del dio.
Una preziosa fonte di informazione è inoltre costituita dalla documentazione monetale, che rivela l’esistenza di un culto dionisiaco in poleis citate dalle fonti letterarie, ma non ancora individuate sul terreno dagli archeologi, come Galaria e Nakone.
Va infine rilevato che in diversi centri della Sicilia greca (in particolare Gela, Agrigento, Camarina, Selinunte), sembra che il culto di Dioniso fosse associato a quello di altre divinità, in primis Demetra e Kore o Persefone, ma anche Atena, Afrodite e, forse, Era. Particolarmente evidente sembra la connessione con Demetra e Kore o con Persefone, già intuita dallo stesso Emanuele Ciaceri, in quanto va ricordato che nei cosiddetti Piccoli Misteri sembra che venisse data particolare importanza a rappresentazioni sceniche di temi mitologici, quali il ratto di Persefone e l’unione di Zeus con quest’ultima o con Demetra, con la conseguente nascita di Dioniso-Zagreus, per lo meno seguendo una visione orfica dei Misteri Eleusini. Lo stesso Hades, in questo contesto, è talvolta considerato equivalente a Dioniso e le due divinità si identificano l’una nell’altra.
Lei affronta anche l'argomento relativo alle modalità in cui il culto legato al dio venne accolto dalle popolazioni indigene presenti nella Sicilia. Secondo Lei, è corretto affermare che la religiosità dionisiaca svolse un ruolo fondamentale nella trasmissione culturale nel contesto indigeno? In che modo ciò avvenne?
La documentazione archeologica attesta che le popolazioni indigene della Sicilia entrarono presto in contatto con i coloni greci, probabilmente già a partire dalla fine del VII sec. a.C., ma le relazioni commerciali e culturali tra i due ethne si intensificarono nel corso del secolo successivo e favorirono forse, in alcuni centri, l’assimilazione di culti del pantheon ellenico a pratiche religiose preesistenti. In particolare, divinità strettamente connesse al ciclo delle stagioni, come Dioniso che, alla stessa stregua di Demetra e Kore, scandiva l’alternarsi della vita, della morte e della rinascita, secondo le regolarità (thesmòi) di Cielo e Terra, attraverso cui si rinnova la vicenda esistenziale dell’uomo e della natura, si sostituì forse, ad un dato momento, ad un dio della vegetazione e della fertilità venerato ab antiquo dalle popolazioni epicorie. Ed è alquanto probabile che la presenza del culto dionisiaco abbia favorito, a partire dalla seconda metà del VI sec. a.C., la diffusione tra le élites delle comunità sicane, sicule ed elime dell’ideologia del banchetto e, soprattutto, del simposio, testimoniata peraltro dal rinvenimento, all’interno delle sepolture delle necropoli, di forme ceramiche (crateri, skyphoi, kylikes, oinochoai) che costituivano un vero e proprio “servizio da banchetto” nel ricco corredo degli esponenti della classe dominante, attraverso il quale essi potevano ostentare il proprio prestigio. Non si può, infine, escludere l’eventualità che in un momento successivo alcuni di questi centri siano diventati delle katoikiai, cioè delle sub-colonie delle grandi poleis siceliote.
In uno degli ultimi capitoli sostiene che la presenza del culto di Dioniso nel mondo fenicio-punico sembra sia da collocarsi tra la fine del XIII sec. e l'inizio del XII sec. a.C. Recentemente si è stabilità l'esistenza di un culto dedicato a Dioniso anche in alcuni centri fenicio-punici della Sardegna, quali Tharros, Monte Sirai, Sulcis, e a Mozia, la più antica colonia fenicia della Sicilia. Lei in passato ha dedicato uno studio alle iconografie riprodotte sulle stele di Mozia, pubblicando un saggio dal titolo Le iconografie femminili delle stele di Mozia. Secondo Lei, è lì che devono essere rintracciate le testimonianze più significative del dionisismo fenicio-punico a Mozia?
L’esistenza di un culto dedicato a Dioniso nei centri fenicio-punici d’Occidente è stato portato alla ribalta da Paola De Vita che in un recente studio ha rivelato l’esistenza di un culto dedicato al dio polymorphos non solo a Cartagine, dove peraltro era stato già individuato da Colette Picard negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, ma anche in alcuni centri fenicio-punici della Sardegna (Tharros, Monte Sirai, Sulcis) e nella più antica colonia fenicia della nostra Isola (Mozia), che hanno restituito diverse testimonianze riferibili al mondo dionisiaco. Secondo la De Vita le testimonianze più rilevanti e significative del dionisismo fenicio-punico provengono dalle iconografie riprodotte sulle stele portate alla luce nel santuario tophet, dalla cui lettura emergerebbe che almeno una parte dei protagonisti della liturgia del MLK avrebbe fatto ricorso, fra la seconda metà del VI e buona parte del V sec. a.C., a motivi di tradizione greca, in alcuni casi ragionevolmente rapportabili alla pratica di culti dionisiaci. La studiosa individua alcuni temi che sembrano rientrare in questa fenomenologia, documentati sia a Mozia sia in altri centri fenicio-punici: le figure maschili danzanti, che richiamerebbero il komos, la figura femminile con tamburello, che rappresenterebbe un personaggio addetto al culto, probabilmente una sacerdotessa, la figura maschile con testa di toro al petto. L’interpretazione di queste iconografie, però, non è, a mio avviso, convincente: in primo luogo perché le immagini raffigurate sulle stele risultano sostanzialmente estranee all’influsso greco e più vicine alla tradizione figurativa vicino-orientale; in secondo luogo perché non ci sono sufficienti elementi a supporto di una connessione con il culto dionisiaco delle figure prese in esame. In particolare, riguardo alla figura femminile con tamburello, un recente studio da me condotto sulle iconografie femminili delle stele di Mozia, ha consentito di acquisire una significativa e probante documentazione letteraria ed archeologica a sostegno dell’ipotesi, già proposta da altri Studiosi, che essa rappresenti una divinità, probabilmente Astarte, della quale è noto il rapporto privilegiato che la collega a Baal e alla quale è attribuito fin dall’età ugaritica l’appellativo “nome di Baal, che ne indicava forse la funzione di paredra. Va infatti ricordato che sulla base di numerose stele rinvenute nel tophet di Mozia è incisa una dedica a Baal Hammon, divinità alla quale il santuario doveva essere consacrato, forse insieme alla stessa Astarte. Sono invece altre le testimonianze che sembrerebbero attestare il culto dionisiaco nell’isola: gli amuleti e le maschere a testa silenica provenienti dalle necropoli ad incinerazione di bambini, le arule fittili su cui è rappresentato il Centauro in posizione distesa con il volto del Satiro/Sileno, delle matrici raffiguranti il Satiro/Sileno con tirso e otre. A questi rinvenimenti bisogna aggiungere inoltre una testa di Sileno in bronzo portata alla luce a Mozia durante la XXXV campagna di scavi della Missione archeologica dell’Università “La Sapienza” di Roma e quelli che stanno emergendo dalla rilettura di vari materiali recuperati sull’isolotto, alcuni dei quali sono attualmente conservati presso il Museo Whitaker.
A quali fonti ha attinto per la stesura di questo lavoro dedicato al culto di Dioniso in Sicilia? Dove si sono concentrate le Sue ricerche?
Nell’introduzione al mio libro metto subito in evidenza il fatto che il culto di Dioniso in Sicilia è scarsamente attestato dalle fonti letterarie, pertanto nel mio lavoro di ricerca ho attinto quasi esclusivamente alla documentazione archeologica (ceramica attica e siceliota con soggetti dionisiaci, statuette, utensili, ornamenti, monete) che ha rivelato come questo dio abbia avuto un ruolo di primo piano nella religiosità e nella vita quotidiana della Sicilia greca ed anellenica.
Quale messaggio si augura possa arrivare ai lettori di questo prezioso saggio, soprattutto ai non addetti ai lavori?
Mi piace sempre dire che il mio lavoro non è un punto di arrivo, ma di partenza e quindi mi auguro che esso possa stimolare ulteriori ricerche sull’affascinate e poliedrica figura divina del dio polymorphos e, al contempo, consenta, specialmente ai “non addetti ai lavori”, di approfondire la conoscenza di questa divinità che per gli antichi Greci fu forse tra le più complesse di un pantheon pur assai intricato, in quanto al suo nome erano connesse credenze di tipo salvifico e forme misteriche di culto, ancora oggi poco decifrabili.
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