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Diego Manzi: viaggio nel cuore della tradizione indiana

sabato, 28 gennaio 2017 10:24

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Un'immagine del libro "Scintille di ordine eterno" raffigurante Varāha, avatāra della divinità hindū Viṣṇu;
Francesca Bianchi
Oggi alle ore 17, presso la Libreria Mondadori di Frascati, sita in Piazza del Gesù, 18, lo scrittore Diego Manzi presenterà il suo libro Scintille di ordine eterno - Viaggio nel cuore della tradizione indiana.
FtNews ha incontrato Manzi, dottore in Giurisprudenza, libero ricercatore di filosofia indiana ed insegnante di yoga, filosofia indiana e counseling olistico presso scuole private in Italia e all’estero. Nel corso della nostra intensa conversazione, lo studioso ci ha parlato dell'attrazione che hanno sempre esercitato su di lui la filosofia, la religione e la mitologia dell'India, soffermandosi sulle contraddizioni di questo sterminato Paese, considerato la culla della spiritualità.
Con grande affabilità ci ha presentato il suo libro, scritto con l'intento di accompagnare il lettore in un vero e proprio viaggio alla scoperta della tradizione indiana. Protagonista di questo viaggio è il fuoco, che ricopre il ruolo di guida e di amico del lettore, pronto a lasciarsi alle spalle i limiti della mente, per accedere a quel luogo della non paura, tanto anelato dallo spirito indiano.

Dott. Manzi, nel 2010 si è laureato in Giurisprudenza, discutendo una tesi in Filosofia del diritto, comparativa di alcuni sistemi giuridici occidentali con quelli orientali; nel 2013 si è laureato in Filosofia, discutendo una tesi in Filosofia della scienza, avente come oggetto il pensiero di Paul Karl Feyerabend e la dottrina jainista anekāntavāda. Quando è nato in Lei l'interesse per la filosofia, la religione e la mitologia dell'India?
Senz'altro il “gioiello” indiano, ancorché in maniera sonnecchiante, è presente in me da quando ero piccolo. Pensi che all'età di 8 anni, chiedendomi cosa potesse esserci dopo la morte, già immaginavo la possibilità, allora quasi terrorizzante, di diventare parte del Tutto. Rabbrividivo al solo pensiero di questa “solitudine cosmica”.
L'interesse vero e proprio, invece, è nato qualche anno prima di laurearmi in Giurisprudenza. Non è un caso che mi sia laureato in Filosofia del diritto con una tesi preparata e discussa con un noto esperto e amante della cultura indiana, Luigi Lombardi Vallauri. Dovevo, però, ancora toccare con mano, per così dire, l'inadeguatezza della filosofia occidentale. E così, dopo una breve e ben poco vocazionale carriera giuridica, mi sono iscritto a Filosofia.

Che percorso formativo ha seguito per specializzarsi in questo settore?
Iscrittomi al corso di laurea in Filosofia, ho iniziato a studiare e ad approfondire lo studio del sanscrito. Con un programma ad hoc sono riuscito a sostenere la maggior parte degli esami su materie che riguardavano la lingua, la letteratura, le filosofie e le religioni dell'India. Dopo aver “attraversato” ben 20 esami di filosofia ho incontrato, si fa per dire, Paul Karl Feyerabend, grazie al quale ho capito che sarebbe stato quanto meno interessante dire “addio alla ragione” (sto citando il titolo di una delle sue opere più importanti) e da lì, ma ancora la partita è aperta, non ho più preso in mano un libro di un pensatore occidentale.

Perché?
Fra i motivi ancora “vivi” restano la poca praticità e, soprattutto, l'incapacità della maggior parte dei filosofi occidentali di abbandonare, anche solo per lo spazio di qualche pagina, il piano logico-razionale.

Che ricordo ha del Suo primo viaggio in India? Cosa L'ha colpita di quello che è considerato uno dei Paesi più spirituali del mondo?
La sorprenderò: la prima volta che sono stato in India ne sono rimasto devastato sia fisicamente che psicologicamente. Forse ancora incapace di scrollarmi di dosso certi pesanti carichi valoriali occidentali, ho giudicato la visione indiana, criticandola e sdegnandola. Tornato a casa, invece, ho capito che non è possibile godersi il “flusso” indiano, portandosi dietro quella specie di letto di Procuste, per demerito del quale si tende a giudicare tutto in base alla cultura di appartenenza.
Ed è vero! In certe zone dell'India, tanto per fare un esempio, la gente muore per strada, a dispetto di una certa indifferenza dei passanti, tuttavia, come dico sempre ai miei studenti, bisogna fare lo sforzo di capire che l'indiano, da sempre, ha avuto più paura della nascita che della morte.
L'India, per dirla con Vivekananda, può pure essere considerata la “patria” della spiritualità, ma non dimentichiamo che tanta “verticalità” convive da sempre con un'altrettanta forte e condizionante, talvolta molto gretta, materialità. Insomma, dell'India si può dire tutto e il contrario di tutto: in fondo, per grandezza, vale l'Europa meno la Russia, se non sbaglio!
Diego Manzi con il suo maestro indiano
Lei si è occupato anche della penetrazione della cultura orientale in Europa a partire dalla seconda metà del Settecento. Quanto la suggestione esercitata dalla cultura orientale ha influito sull'elaborazione del pensiero del filosofo tedesco Schopenhauer e, più in generale, sull'intera cultura europea?

Senz'altro Schopenhauer ha avuto il merito di “riabilitare” la filosofia indiana dopo le invettive di Hegel, dando vita ad un filone di pensatori senz'altro sensibili a queste filosofie, i quali, a loro volta, hanno dato alle rispettive visioni del mondo una certa tinta orientaleggiante. Tuttora sono molti i pensatori suggestionati dalle filosofie orientali, ma sono pochi coloro che hanno colto il senso profondo delle filosofie fiorite in India.
Queste ultime, se vogliono acquisire il crisma di “visioni” (darshana) autentiche della realtà, devono infatti tradursi in vita e, a fortiori, proiettare l'uomo fuori da quel ciclo di morti e rinascite chiamato saṃsāra.
Questo, però, è successo raramente in Occidente. Insomma, Schopenhauer, tanto per fare un esempio, aveva buon gioco a predicare bene, ma se poi frequentava le case di tolleranza di fronte agli occhi dei propri studenti e sempre a dispetto della sua filosofia volta al raggiungimento del nirvana, nullificava la bontà della propria filosofia. Io parlo, anche nel mio libro, di “sfericità” della filosofia indiana: ad una buona teoria deve per forza seguire una pratica volta a “vivificarla”.

Nel libro Scintille di ordine eterno. Viaggio nel cuore della tradizione indiana guida il lettore in un una sorta di viaggio alla scoperta della tradizione indiana. Quando e come è maturata in Lei l'idea di pubblicare questo libro?
Le dirò che alla fine di una lezione una studentessa, Elisabetta, mi disse: “Diego, le dispense che ci hai dato da studiare sono talmente tante da farci un libro!”. E da lì, a poco a poco, è maturata in me quest'idea.

Cosa si intende con l'espressione "scintille di ordine eterno"?
Ordine eterno è la traduzione, alla buona, di sanatana dharma. Occorre sapere, infatti, che Hinduismo è un'etichetta che i dominatori stranieri, e più segnatamente i musulmani, diedero agli indiani, i quali, viceversa, preferiscono considerarsi i portavoce di una tradizione (o ordine) eterna (senza inizio né fine). Scintille, invece, perché era impossibile cogliere in maniera esaustiva tutti i “collanti” e le componenti di una tradizione tanto sterminata. Dunque ho proceduto giusto per “scintille”.

Quali temi affronta nel Suo libro?
Mi sono proposto di accompagnare il lettore in un vero e proprio “viaggio” alla scoperta della tradizione indiana: dalle statuette e i sigilli vallindi fino all'importante ruolo rivestito dalla divinità femminile in India. In particolare, non esitando a fare abbondante ricorso al mito e alla metafora, ho cercato di presentare in maniera chiara e accessibile anche al lettore che si avvicini per la prima volta alla tradizione indiana, quei princìpi che, da un tempo immemorabile, regolano e rendono possibile il complesso “miracolo” dello Hindūismo: la ciclicità del tempo, la legge del karma e del saṃsāra, i tre itinerari di salvezza da sempre propiziati ed esaltati dal genio indiano, le radici del sistema varṇa-āśrama-dharma, sul quale si regge ancora oggi il complesso ordine socio-religioso hindū, e la fede nei Veda.
Autentico protagonista di questo viaggio è il fuoco, prima esteriore e poi interiore, che si candida a rivestire il ruolo di “guida” e di amico del lettore pronto a lasciarsi alle spalle, almeno per lo spazio di una meditazione, gli stringenti e duali “limiti” della mente, per accedere a quel luogo della “non paura” tanto anelato dallo spirito indiano.

Ecco, come possiamo accedere al tanto agognato stato della "non paura"?
Quel “luogo” si trova al di là della dualità e per accedervi occorre compiere quello che per un filosofo occidentale costituirebbe il delitto più grave: il sacrificio della mente e, a fortiori, dell'ego. Almeno per lo spazio di una meditazione, sia chiaro. Infatti è proprio l'ego, in perenne moto di identificazione, che rende schiavi gli occidentali di questo o quello stato mentale: infelicità, odio, depressione, ansia e via dicendo.
Diego Manzi
In che modo mito e filosofia contribuiscono a guidare il lettore alla scoperta della tradizione indiana?
In India, possiamo dire, non c'è mai stata una netta scissione fra mito e filosofia. Una complementarità, questa, la quale, in breve, può essere intesa siffattamente: il mito riesce ad arrivare laddove la filosofia argomentativa non può condurre. E non meravigliamoci troppo se in India, da sempre, persino la favolistica diventa formativa: la storiella edificante, tecnicamente chiamata kathādṛṣṭānta, rappresenta spesso e volentieri, infatti, il mezzo più idoneo per l'insegnamento.

Che importanza riveste la figura femminile in India?
Ho dedicato alla Dea Devi l'epilogo del mio libro. La straordinaria energia femminile, incastonata come un gioiello nel nostro complesso psico-fisico, è una scintilla trasformativa fulgida e potente: secondo la tradizione fisiologica indiana, è per mezzo del risveglio di questa Dea presente dentro di noi, chiamata Śakti o Kuṇḍalinī, che si possono celebrare quelle “nozze” mistiche volte a ripristinare la più sublime unità dentro e fuori di noi. Nonostante ciò la Dea, proprio come la natura, non è soltanto la nutrice dai fianchi larghi, ma anche la “crudele” distruttrice della vita mortale.
Scopo di alcune pratiche tantriche è quello di mettere in contatto il praticante con i vari aspetti dell'energia femminile: da quelli più statici, materni e mansueti a quelli più forti, inquietanti e prodigiosi. Tutto ciò per scoprire, alla fine, che si tratta di due aspetti della medesima realtà. In particolare la “Dea”, completamente riabilitata dei suoi poteri divini, diventa quella forza adamantina in grado di accompagnare il praticante verso il superamento e l'integrazione dei propri (apparenti) limiti e, soprattutto, delle sue paure.

Cosa può insegnare la spiritualità indiana alla nostra società occidentale, immersa nei ritmi frenetici della quotidianità e sempre più avulsa da qualsiasi forma di contemplazione e meditazione?
Certamente l'India rappresenta una “sfida” che, se colta autenticamente, può aprire scenari evolutivi meravigliosi. Ho dedicato giustappunto il mio ultimo capitolo a questi possibili “scenari”.

Quale messaggio si augura possa arrivare ai lettori del Suo libro?
Molto semplicemente ed umilmente mi sono proposto di “avvicinare” e sensibilizzare più persone possibili ai “gioielli” realizzativi fioriti in questa autentica Terra dell'Oltre. Uno di questi gioielli, forse il più splendente, resta, per quanto mi riguarda, la capacità di vedere l'unità nella differenza.

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