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mercoledì, 13 novembre 2024 06:13 |
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Fabrizio Federici
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Perché la legge nazionale – numero 94 – del marzo 2004 ha istituito il Giorno del Ricordo” delle vittime delle foibe e dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati? Perché di queste vicende, che hanno segnato drammaticamente la storia del nostro confine orientale e delle vaste regioni limitrofe (Venezia Giulia, Istria, Dalmazia) negli anni dal 1943 al 1958, ancora non c’è in Italia una vera conoscenza e consapevolezza di massa: finalmente libere da paraocchi e pregiudizi ideologici, tipicamente otto-novecenteschi, che da noi tuttora condizionano gran parte del dibattito politico-culturale anche sul passato recente.
Su questi temi, fa il punto il saggio Perché il Giorno del Ricordo. La frontiera giuliana dai conflitti del passato al dialogo europeo. La legge 92/2004 compie vent’anni, opera degli storici Giovanni Stelli, direttore di Fiume. Rivista di studi adriatici e presidente della Società di Studi fiumani-Archivio museo storico di Fiume, e Marino Micich, direttore di questi ultimi due organismi e, dal 2004, membro della Commissione governativa per le onorificenze ai congiunti degli infoibati. Il saggio è uscito nella collana storica di Aracne editrice, con l’appoggio anche di Antonello Biagini, Professore Emerito di Storia dell'Europa Orientale della “Sapienza” di Roma, e Andrea Carteny, Professore Associato di Storia Moderna, delle Relazioni Internazionali e dell'Europa Orientale, sempre alla Sapienza.
Con l’istituzione del Giorno del Ricordo – decisa appunto dalla legge 94/2004 – come rilevato dai due Autori nell’introduzione, la memoria della tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano, istriano e dalmata (in più ondate, dal 1943 al 1958 circa), è diventata, in 20 anni, ufficialmente parte della storia nazionale. Il 10 febbraio scorso, l’allora ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano annunciava la creazione, a Roma, di un Museo nazionale del Ricordo. Mentre, sul piano internazionale, il 13 luglio 2020 alla foiba di Basovizza, l’unica esistente nel territorio italiano, s’erano incontrati il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e il presidente sloveno Borut Pahor, avviando nuove forme di collaborazione anche sui temi della memoria.
Nel primo capitolo del libro, Giovanni Stelli fa il quadro della storia dei territori dell’Adriatico orientale (Venezia Giulia, Istria, Dalmazia) dal Medioevo al post-Prima guerra mondiale, soffermandosi anche sulla politica di assimilazione forzata delle popolazioni attuata da parte sia italiana (specie durante il fascismo) che austriaca. Dopo l’8 settembre del 1943, inizia la tragedia delle foibe: inquadrata da Stelli nella sua natura di “pulizia di classe” (e anche etnica anti-italiana), pianificata da anni, in piena coerenza leninista, dal Partito comunista jugoslavo con la temutissima Ozna, la polizia segreta. Una linea, questa della “guerra di classe”, chiaramente molto più accentuata che nell’Italia dello stesso periodo (1943-1945), e che ha il pieno appoggio di alcuni dei massimi dirigenti del Partito comunista italiano (come Pietro Secchia e, per certi versi, Luigi Longo), pur legati ufficialmente all’indirizzo partecipazionista “moderato” alla Resistenza caldeggiato da Palmiro Togliatti, su input di Iosif Stalin, con la Svolta di Salerno del marzo 1944.
Stelli ricorda, poi, la tormentata discussione, a Parigi, del Trattato di Pace, firmato il 10 febbraio 1947, con cui l’Italia perde quasi tutta l’Istria, Fiume e Zara. Inoltre, deve accettare la creazione (che, peraltro, non si tradurrà mai in pratica) del Territorio libero di Trieste, con le zone “A” e “B”, sotto l’amministrazione militare, rispettivamente alleata e jugoslava. Sette anni dopo, col Memorandum di Londra fra Italia, Regno Unito, Usa e Jugoslavia, la zona “A”, con Trieste, tornerà sotto la sovranità italiana. Mentre il successivo Trattato di Osimo del 1975 sancirà il definitivo passaggio della zona “B” a Belgrado.
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Nel secondo capitolo, Marino Micich precisa che l’esodo istriano, giuliano e dalmata avvenne, diversamente che in altre situazioni storiche, senza che ci fosse stato alcun decreto di espulsione. Il che ha permesso per decenni alla storiografia jugoslava (e poi slovena, croata e italiana) di sostenere che la partenza, in totale, di circa 300mila italiani, dal 1947-1948 sino a ben oltre il 1958, avvenne su base puramente volontaria (il diritto di “opzione cittadinanza” era garantito, agli italiani viventi in quelle terre, dal Trattato di Pace del 1947). Quanto fosse completamente volontaria, e non motivata dalla comprensibile paura di un regime – quello, appunto. titoista – che, nonostante la rottura con Mosca del 1948 (rottura, peraltro, poi rientrata, dopo la scomparsa di Stalin), risultò, quasi in tutto (a parte, cioè, il mantenimento d’un minimo di iniziativa economica privata), una copia di quello sovietico “in salsa balcanica”, non è difficile immaginarlo.
Micich, infine, si sofferma sulla pluridecennale questione dei risarcimenti (sempre largamente inadeguati rispetto ai beni requisiti) a tutti gli espatriati che furono colpiti dalle espropriazioni decise dal Governo titoista. Peraltro, l’ultima legge in materia, la numero 137 del 2001, non ha stabilito un coefficiente equo e dignitoso. In conclusione, solo una sincera prosecuzione del dialogo italo-croato e italo-sloveno, iniziato dopo il 2000, potrà portare alla definizione, fra i tre Paesi, non di una memoria condivisa (che sarebbe un’utopia) ma di più memorie “riconosciute”. Ognuna delle quali – sottolinea, nella prefazione, Gianni Oliva, giornalista e storico del Novecento – riconosca “la legittimità dell’altra per comporre, insieme, un quadro superiore”.
La prima presentazione del libro sarà a Bologna giovedì 14 novembre, alla libreria “Il Secondo Rinascimento”, in collaborazione con la sezione bolognese dell’ ANVGD, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (prima associazione nazionale, sorta nel 1947, a raccordare i profughi di Venezia Giulia e Dalmazia).
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