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Macbeth al teatro Quirino di Roma

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martedì, 29 novembre 2016 12:57

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Luca Lazzareschi e Gaia Aprea - foto di Fabio Donato
Fabrizio Federici
In questo 2016, non solo la Gran Bretagna, ma anche altri Paesi hanno realizzato iniziative per commemorare degnamente il quattrocentesimo anniversario (1616 - 2016) della morte di William Shakespeare: l'autore che in tragedie, drammi e commedie memorabili, ha scandagliato come pochi altri le pieghe più risposte dell'animo umano, le passioni che nell'uomo da sempre s'accendono di fronte alle contingenze della vita, ben poco cambiate dai tempi dei carri falcati a quelli delle astronavi.
Con “Riccardo III” e “Amleto”, “Macbeth” (scritto tra il 1605 e il 1608, nei primi anni di regno di Giacomo I Stuart, un po' “la quiete prima della tempesta” della rivoluzione contro l'assolutismo del suo successore, Carlo I), rappresenta il terzo, e più inquietante, anello di un’ideale trilogia sul potere.
Tema, questo, che Shakespeare – nato e formatosi, sia come attore che, poi, autore di teatro, nell'età elisabettiana, e contemporaneo del teorico dell'assolutismo Hobbes - in realtà affronta in molte opere: ma che anzitutto in queste tre, e specialmente nel “Macbeth”, troviamo sviscerato a fondo, nei suoi legami con le più nascoste, e distruttive, pulsioni umane.
Sul palcoscenico del “Quirino”, sino al 4 dicembre, sono i Teatri Stabili di Napoli e Catania, per la regìa di Luca De Fusco, a portare in scena appunto il “Macbeth”, nella traduzione di Gianni Garrera.
Le scene di Marta Crisolini Malatesta, i costumi di Zaira de Vincentiis (tra Alto Medioevo e anni '30 - '40, con evidente allusione agli “anni di ferro e sangue” europei), le luci di Gigi Saccomandi e il ricorso a installazioni video (Alessandro Papa) ricreano bene l'atmosfera cupa, e quasi surreale, del testo.
Che vede un uomo, Macbeth (un bravissimo Luca Lazzareschi), fedele esecutore degli ordini del suo re Duncan (Enzo Turrin), trasformarsi gradualmente, anche per il sinistro influsso della moglie (un' altrettanto brava Gaia Aprea), in un tiranno assestato di potere e di sangue. Il personaggio di Macbeth, però, presenta una certa ambiguità: la sete di potere, infatti, l' induce al delitto (ai danni anzitutto di Duncan, cui vuole succedere sul trono, poi del suo vecchio amico Banquo, il cui fantasma tornerà a tormentarlo), ma dei suoi crimini egli prova anche rimorso, pur essendo incapace di pentimento.
Il contesto è quello della Scozia altomedioevale, non ancora arresasi - come poi avverrà appunto sotto Giacomo I Stuart - al “Grande fratello” inglese: per la trama, Shakespeare s' ispira liberamente al resoconto storico sul re Macbeth di Scozia (ucciso, nel 1057, da Malcolm, per vendicare il padre Duncan) di Raphael Holinshed, e a quello del filosofo scozzese Hector Boece.
Come nella tragedia greca (modello cui il Bardo, in realtà, per vari aspetti resta tributario), e come nell' “Amleto”, è presente il sovrannaturale, con apparizioni di spettri, fantasmi, rappresentanti il peso delle colpe e le angosce dell'animo umano.
Nella sua follia sanguinaria, anzi, Macbeth ha un solo conforto proprio attraverso il contatto col sovrannaturale; e all'inizio del IV atto, si reca nuovamente dalle streghe, già incontrate all'inizio (tre, come le Parche della mitologia greca), per conoscere il suo destino.
Le streghe (Sara Lupoli, Chiara Barassi, Sibilla Celesia), dopo avergli predetto, all'inizio, l'ascesa al trono, la seconda volta lo ingannano con un responso solo in apparenza rassicurante, rilasciato dalla voce fuori campo di Angela Pagano: che col suo tono banale, quasi da maestra elementare, simboleggia perfettamente, diremmo, la “banalità del male” incarnata (per dirla con Hannah Arendt) dalla “rotella” Macbeth. Il tiranno s'appiglia con convinzione a questa seconda profezia, e affronta i nemici, sino al momento in cui ne scoprirà il vero significato, e pagherà per le sue colpe nel confronto finale con Malcolm (Giacinto Palmarini), legittimo erede di Duncan, e il nobile scozzese Macduff (Claudio Di Palma): che decapita Macbeth, vendicando così l'assassinio della moglie e del figlio.
Tra Eschilo e Kubrick, il Moliere del “Don Giovanni” (dove, osserviamo, il “Convitato di pietra”, con le sue apparizioni, ricorda veramente le tormentose “visite”di Banquo a Macbeth) ed echi della pittura surrealista ( Delvaux, Magritte, Dali), richiamati dalle ardite scenografie, uno spettacolo veramente da non perdere.
Al cinema, invece, pù celebri trasposizioni del "Macbeth" erano state quelle di Orson Welles (1948), Akira Kurosawa (1971), Roman Polanski (1971) e Justin Kurzel (2015).
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