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venerdì, 06 gennaio 2017 09:15 |
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Rosario Pesce
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Si è sempre discusso intorno al valore democratico, intrinsecamente, afferente alla ricerca scientifica ed al mondo del sapere.
Sin dall’antichità, il primato della scienza non è stato solo di natura epistemologica, ma anche di carattere politico.
È indubbio che, in ogni società avanzata, chi sa, possiede una prerogativa in più rispetto a chi non sa, per cui il possesso delle nozioni scientifiche dà diritto ad un potere, che è molto difficile da scalfire.
I nostri nonni, i nostri genitori, non a caso, ci hanno sempre ammonito a studiare, perché chi sa può godere di una posizione di forza fra i suoi simili.
Nel mondo odierno, orbene, post-industriale e soprattutto figlio delle conquiste del Novecento, si sta consumando, invece, una condizione molto triste.
Chi sa non sempre occupa posizioni sociali e lavorative, effettivamente, corrispondenti alla sua scienza, ma soprattutto – cosa ben più tragica – sembra essere finito il primato del sapere, per cui un tempo i figli delle classi meno abbienti erano, naturalmente, spinti a studiare per realizzare quell’auspicata mobilità sociale, che consentiva al figlio del contadino o dell’operaio di divenire professionista e di riscattare, quindi, il lavoro socialmente non riconosciuto dei propri genitori.
Gli standard di sapere delle nuove generazioni si abbassano molto rapidamente e, per effetto di ciò, il primato della scienza viene, progressivamente, perdendo forza.
Sembra quasi che possa esistere una competenza priva di una conoscenza forte e salda alla sua base e si sa bene che una simile convinzione è, assolutamente, errata perché nessuna competenza può fondarsi su di uno stato di ignoranza scientifica.
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Il primato dell’azione si è sostituito, man mano, a quello della teoresi, per cui, finanche nel campo della ricerca, le conquiste degli ultimi decenni riguardano - per lo più - avanzamenti tecnologici, ma non nuove acquisizioni scientifiche nel senso più autentico della parola.
I livelli di istruzione e di occupabilità conseguente dei nostri giovani ne risentono in modo notevole, per cui essi vengono a trovarsi in condizioni assai spiacevoli, quando, una volta laureati, vanno ad incrementare la lunga fila di disoccupati.
In molti casi, viste le difficoltà lavorative, molti di essi preferiscono emigrare, mentre altri a monte scelgono di non intraprendere la via degli studi universitari, preferendo - piuttosto - entrare dapprima nel mondo del lavoro, che certo non premia i livelli superiori di istruzione e di specializzazione.
Dimentichiamo, forse, che un buon artigiano guadagna molto di più di un ricercatore universitario?
Il quadro è triste, per davvero: sembra che il futuro professionale dei nostri adolescenti, che più sanno, sia definitivamente pregiudicato, mentre l’Italia diviene un Paese dove trovano occupazione solo figure professionali, che hanno un più basso grado di formazione scientifica, camerieri e cuochi in primis.
Non saremo, forse, più il Paese dei ricercatori o dei grandi professionisti?
O, forse, la scienza non è più strumento di crescita democratica per una società, che non ha la cultura fra i suoi obiettivi primari?
Molto probabilmente, stiamo tornando indietro di qualche secolo, quando il vero sapere era possesso esclusivo di un’élite molto ristretta, che su quello e sulle ricchezze economiche fondava una supremazia indiscussa ed oggettiva.
Se il percorso, che stiamo compiendo, ci porta indietro verso un nuovo Medioevo, abbiamo in pochi decenni azzerato secoli di crescita democratica e di sana divulgazione scientifica, creando le premesse per una nuova epoca buia ed oscurantista.
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