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domenica, 18 gennaio 2015 19:13 |
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Rosario Pesce
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Da più parti si chiede che il futuro Presidente della Repubblica possa essere un rappresentante di una nuova generazione di personalità politiche, che non abbiano avuto responsabilità di governo nel corso della Seconda Repubblica per un fatto, anche, di natura meramente anagrafica.
Enrico Mentana, giornalista notissimo per la sua vicinanza agli ambienti del Centro-Sinistra, finanche quando lavorava per conto di Berlusconi a Mediaset, ha lanciato oggi, nello studio di Lucia Annunziata, il nome di Graziano Delrio, attuale Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ed uomo molto vicino, ovviamente, a Renzi, con cui ha condiviso gestione ed indirizzo politico negli anni nei quali essi erano co-protagonisti della vicenda istituzionale dell’ANCI, cioè dell’Associazione dei Comuni italiani.
È evidente che, in un Paese, nel quale vengono elette - di solito - al soglio quirinalizio personalità almeno settantenni, l’indicazione del nome di un protagonista dei nostri giorni, appena cinquantenne, costituisce di per sé una novità rilevante, visto che, in caso di successo, si porterebbe a termine quel processo di ricambio generazionale, che si è avviato assai rapidamente con l’ascesa di Renzi alla Presidenza del Consiglio.
È, altrettanto, naturale che l’ipotesi di Mentana, meramente suggestiva, si presta ad obiezioni di segno assai importante: innanzitutto, è necessario che il successore di Napolitano abbia un rilievo internazionale, almeno, pari a quello del suo predecessore ed, in particolare, è opportuno che non sia troppo vicino al Premier, perché, altrimenti, la minoranza del PD non voterebbe mai un candidato tacciabile di essere la “longa manus” del Premier sul Quirinale.
Quindi, mancherebbero a Delrio due requisiti fondamentali per l’elezione quirinalizia, per cui possiamo ritenere che, nonostante l’endorcement prestigioso di Mentana, tale candidatura è destinata a rimanere “in mente Dei”, perché, inevitabilmente, il Parlamento eleggerà una personalità che, comunque, avrà altri caratteri rispetto a quelli dell’odierno Sottosegretario a Palazzo Chigi.
Ma, nonostante tali obiezioni dirimenti, è giusto affrontare la questione del ricambio generazionale e delle modalità, con cui esso dovrebbe avvenire: infatti, è ben noto che ci troviamo in una fase di passaggio fra la Seconda Repubblica, i cui leaders sono ormai logori e privi del giusto sostegno da parte della pubblica opinione, e la Terza Repubblica, che dovrebbe prendere avvio, qualora la legislatura attuale fosse in grado di varare la riforma della Costituzione, che sarebbe di peso non inferiore rispetto a quella che venne realizzata nel 2001, quando si mise mano al Titolo V della Carta, riformandolo in un ambito costituzionale fondamentale, qual è quello delle prerogative delle autonomie locali e del rapporto fra queste ultime ed il potere centrale.
Non è un caso se, da quel momento in poi, i principali protagonisti della vita romana hanno iniziato ad essere i sindaci di città di dimensioni medio-grandi: da Rutelli a Veltroni, da Bassolino a Renzi, dallo stesso Delrio fino a Chiamparino, a dimostrazione del fatto che la classe dirigente del Paese, dopo quella discussa riforma, ha scelto come luogo elettivo di formazione la gestione dei Comuni e, più in generale, l’amministrazione degli Enti Locali.
Immaginare, però, che si possa realizzare un salto così importante in brevissimo tempo, per cui si passerebbe dal ruolo di Sindaco a quello - addirittura - di Capo dello Stato, sembra un’idea assai discutibile, visto che ogni mestiere – e la politica lo è, ineluttabilmente – necessita di un adeguato cursus honorum, per cui sarebbe auspicabile che la transizione, da un ruolo istituzionale ad un altro, possa avvenire molto più gradualmente.
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D’altronde, in una fase storica, nella quale il Paese è sempre più inserito in un contesto di relazioni, continentale ed atlantico, non può sfuggire che il vertice dello Stato debba essere, legittimamente, occupato da chi ha visibilità oltre i confini nazionali, dato che è inimmaginabile che la vicenda elettorale per la Presidenza della Repubblica rimanga chiusa entro gli angusti limiti italiani e non venga compulsata, anche, da motivi stringenti di condizionamento di livello, chiaramente, superiore.
Pertanto, delle due l’una: il prossimo Capo dello Stato potrà essere selezionato fra i politici di lungo corso ed, in tal senso, la lista dei papabili è lunghissima ovvero dovrà essere scelto fra quanti, pur non avendo un’esperienza politica significativa alle proprie spalle, vantano però una presenza nelle istituzioni europee e mondiali, in particolare di natura finanziaria ed economica, per cui sono molto più noti all’estero di quanto non lo siano in Italia.
È il caso, ad esempio, dell’attuale Ministro dell’Economia, Padoan, cresciuto come tecnico di grandissima fama nelle istituzioni monetarie internazionali e poco o per nulla conosciuto, invece, dalla pubblica opinione italiana, prima che ricevesse il prestigioso incarico ministeriale nel Governo Renzi.
Dei due profili descritti, invero, ci sembrerebbe molto più opportuno il primo, ma - certo - il secondo non è disdicevole e, soprattutto, appare concretamente praticabile.
Rimane, poi, una pregiudiziale sui sindaci, ascesi troppo celermente a cariche romane importantissime: infatti, reputiamo che le ragioni della buona amministrazione non necessariamente vadano d’accordo con quelle della politica ed il ruolo del Presidente della Repubblica – almeno, nell’ordinamento vigente – prevede che siano enfatizzati le capacità ed i meriti politici, piuttosto che quelli strettamente di ordine amministrativo, che non rientrano nelle competenze, espressamente, richieste all’inquilino del Quirinale.
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