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giovedì, 20 ottobre 2016 06:57 |
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Rosario Pesce
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Il valore, che ciascuno di noi dà alla vita, è forse il misuratore più importante del nostro stesso attaccamento alla mondanità, alla natura, a tutto ciò che, in qualche modo, ci tiene legati alla Terra.
Della vita, come di qualsiasi altro bene, si intuisce il vero valore, solo quando viene a scarseggiare quella nostra o dei nostri cari.
Nei momenti di gioia, di entusiasmo, il nostro pensiero non va, di certo, alla natura mortale del nostro Essere, mentre in quelli di scoramento o di abbattimento ciascuno di noi intuisce il limite, non solo fisico, dell’esistenza propria e di quanti ci circondano.
L’amore, l’arte, la politica, la società, sono - tutti questi - momenti nei quali ciascuno avverte la vena vitalistica del proprio sé, finanche quando queste contingenze ci portano allo scontro o ad un rapporto dialettico con l’altro.
Infatti, la vita non è un bene autistico: come il campione si esalta nello scontro con il proprio contendente, così l’individuo riscopre sé nella tensione che lo porta, naturalmente, ad essere in relazione con un oggetto o con una persona fuori di sé.
Peraltro, cos’è l’Esserci, se non questa continua tensione nella ricerca di una dimensione vitale per l’uomo, nel perenne incontro-scontro con il proprio simile, così che le grandi idee, i valori sono il luogo tipico per la vita delle menti più raffinate, così come le piccinerie danno senso a quella delle persone più mediocri?
Ma, in ogni caso, a prescindere dalla qualità e dal valore di ciascuno, la ricerca porta l’Uomo ad oggettivare il sé, a cercare altrove ciò su cui si fonda il suo Essere trascendentale, prima ancora che storico.
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E, poi, interviene appunto la storia, la dimensione cioè degli affetti, delle relazioni problematiche, degli scontri fra giganti e pigmei, quella nella quale ciascuno di noi consuma una parte di sé per lasciare una propria traccia in favore delle generazioni successive.
L’Uomo è così fatto, per un verso con un piede nella contingenza, per l’altro pronto a slanciarsi verso ciò che egli non conosce, ma che lo intriga per sua stessa natura.
Questa dimensione, che si chiami Dio o Natura o Io, è l’autentica forma della sublimazione umana: al di fuori di tale Assoluto, regna solo il caos; entro tale prospettiva, invece, acquisisce senso l’incompiutezza umana, come precondizione della tensione dell’Uomo fuori di sé.
Secoli di riflessione religiosa, filosofica, psicologica, antropologica hanno cercato di dare una spiegazione ad un siffatto atteggiamento, ma il sentire, in tal caso, viene prima del comprendere: non esiste concetto che restituisca, nella sua pienezza, il valore di un sorriso o di una parola o di un gesto artistico, tutti in grado di esprimere la tensione umana verso la perfezione e, quindi, verso l’Altro da sé.
Ma, quanti vi riflettono?
Pochi, forse solo gli spiriti eletti o forse, solo, gli illusi che sperano - ancora - nella ricerca di una trascendenza che dia senso ad una mondanità apparente e cangiante.
Al di là di questa ricerca, rimane il gesto non intelligente, stereotipato, un disvalore per la nostra intelligenza di noi stessi e per quella del mondo circostante.
Quella forse, assai tragicamente, sarà la nostra gabbia di acciaio e l’orizzonte ultimo di un’esistenza grama?
Se così fosse, ahinoi, la vita non avrebbe – per davvero – senso, riducendosi a noia e ad una mera anticipazione della morte biologica.
Varrebbe la pena, dunque, viverla?
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