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lunedì, 03 ottobre 2016 15:37 |
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Rosario Pesce
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Eugenio Scalfari, con la sua proverbiale cultura, dalle pagine di Repubblica, ha molto sarcasticamente preso le difese di Renzi, che - nel confronto televisivo con Zagrebelsky - è stato accusato dal Prof. di volere una riforma dello Stato, che indurrebbe una svolta autoritaria della nostra amata Repubblica.
Il ragionamento di Scalfari non fa una piega.
Renzi autoritario?
Per essere tale, egli – argomenta il fondatore di Repubblica – dovrebbe avere intorno a sé una classe dirigente e non un manipolo di “yes men”, che certo non conferiscono alcuna forma di autorevolezza aggiunta ai suoi pensieri ed alle sue azioni.
D’altronde, così dovrebbe essere: in ogni epoca storica, come giustamente dimostra Scalfari, gli autocrati si sono circondati di eccellenze, per cui il loro pensiero e la loro azione concreta nascevano da un confronto continuo con siffatte personalità.
In tal senso, la democrazia sarebbe solo un feticcio, visto che essa coinciderebbe, tout court, con un’illuminata autocrazia, proprio come ai tempi delle élite moschiane.
La coincidenza, illustrata da Scalfari, fra democrazia ed autocrazia illuminata, ovviamente, non può che far sobbalzare, visto che la democrazia odierna, cui fa riferimento Scalfari, è - almeno sulla carta - molto diversa da quella cui faceva riferimento lo studioso siciliano Gaetano Mosca.
Questa democrazia è il frutto del suffragio universale, delle lotte operaie e della Resistenza, mentre la democrazia liberale era il frutto della “Belle époque” e di tutto ciò che, agli inizi del Novecento, volle significare per l’Italia la monarchia sabauda di Vittorio Emanuele III ed i Governi liberali di Giolitti.
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Certo è che Renzi, per quanto sostenuto dai poteri forti del nostro Paese (vedi Confindustria ed alcune organizzazioni sindacali) nella sua quotidiana battaglia per il Sì al referendum, si trova ora isolato rispetto ad una parte rilevantissima dell’intellighenzia italiana, che due anni fa lo ha sostenuto e che, adesso, lo ha scaricato, molto tempo prima - quindi - di conoscere gli esiti del referendum, che decideranno le sorti del suo Governo.
I primi, che lo hanno abbandonato al suo destino, sono proprio lo stesso Scalfari ed il suo socio, nonché editore di Repubblica, De Benedetti, che hanno preso le distanze dal Premier in tempi non sospetti, già prima del tracollo, alle elezioni amministrative, dello scorso mese di giugno.
In tal senso, già privo del sostegno del salotto buono della cultura e del giornalismo, rappresentato dal gruppo Repubblica-L’Espresso, è chiaro che Scalfari, fingendo di bacchettare il suo caro amico Zagrebelsky, non fa altro che mettere in evidenza viepiù il carattere a dir poco naif dell’autoritarismo di Renzi, più frutto di compulsioni di singole componenti dell’attuale ceto politico, che non espressione di un disegno organico di potere elaborato dalla borghesia più progressista ed avanzata del nostro Paese.
Povero Renzi, potremmo dire: sedotto ed abbandonato da De Benedetti, lontano ormai da Berlusconi, che non condiziona, neanche più, i suoi uomini in Parlamento, sotto il tiro della stampa vicina ai Cinque Stelle, si trova a dover combattere una battaglia decisiva per il suo futuro in compagnia solo di quanti sono, tuttora, rimasti in Confindustria.
Si direbbe, proprio, che sembra avviato ad un triste destino.
Ma, forse, più triste è il destino del Paese intero, che prima aveva una classe dirigente autentica, composta da intellettuali, industriali, uomini di potere, che erano in grado di condurre chi si trovava alla guida della navicella italiana.
Un tempo, qualcuno avrebbe detto: “Povero quel Paese, che ha bisogno di eroi!”; oggi, con la medesima intensità e con non minore sarcasmo di Scalfari, possiamo gridare: “Povero quel Paese, che non ha, neanche, un autocrate di razza!”.
D'altronde, un autocrate di razza avrebbe fatto la riforma dello Stato con - e non certamente contro - il consenso di quei pochi, grandissimi intellettuali, che sono ancora rimasti in questo Paese.
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