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domenica, 02 ottobre 2016 07:17 |
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Rosario Pesce
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Quello fra la riforma elettorale e la revisione della Costituzione è un rapporto difficile da creare, per quanto il legislatore, seppur animato dalle migliori intenzioni, si sforzi di fare.
Infatti, la prima, la legge elettorale, viene introdotta attraverso un dispositivo ordinario, per cui, in qualsiasi momento, essa può essere oggetto di revisione, mentre la riforma della Costituzione implica un tale coinvolgimento di risorse e di energie politiche, che non può non essere tentata, se non una volta ogni venti anni.
Pertanto, il rischio, a cui si va incontro, è molto facilmente intuibile: da una parte, un dispositivo elettorale che, per quanto molto propizio, può essere incompatibile con l’architettura complessiva dello Stato, che si intende costruire dall’altra.
Non è un caso se, negli Stati dove la Costituzione è la stessa da maggior tempo, la riformulazione della legge elettorale non è mai praticamente avvenuta, perché l’assetto dello Stato ed il dispositivo di voto sono divenuti un tutt’uno, difficilmente scindibile.
Nel nostro Paese, invece, ad ogni legislatura circa, nel corso degli ultimi venti anni, si è parlato di correzioni da apportare al dispositivo elettorale, per cui, nell’arco di un paio di decenni, siamo passati da un proporzionale puro – quello della Prima Repubblica – ad un maggioritario a turno unico (il cosiddetto Mattarellum), poi ancora ad un proporzionale corretto da un premio di maggioranza senza preferenze ed, infine, a quello attualmente in vigore, che prevede un proporzionale con doppio turno nazionale.
Insomma, quasi tutti i possibili meccanismi elettorali sono stati provati ed, invero, nessuno di essi è stato in grado di assicurare due fattori essenziali della vita democratica per la nostra comunità nazionale: la governabilità e, ad un tempo, l’ampia rappresentatività.
Pertanto, siamo giunti ad un punto di svolta: il prossimo referendum sulla legge di revisione costituzionale ci pone un interrogativo circa la liceità e la legittimità di un sistema elettorale, che ad oggi regalerebbe la piena vittoria dei seggi camerali ad una forza politica, che potrebbe non avere la maggioranza assoluta dei voti, in base ad un criterio giuridico iper-maggioritario, che il nostro Paese non ha conosciuto, neanche, ai tempi della Legge Truffa, proposta dalla DC negli anni Cinquanta, quando bisognava arginare il PCI ed il pericolo sovietico, che esso portava con sé.
Da più parti, si dice che il combinato disposto di legge elettorale e nuova Costituzione segnerebbe - di fatto - la svolta autoritaria del nostro Paese, per cui in molti sono quelli che avversano, ad un tempo, sia la riforma renziana della Carta, che quella che sancisce il meccanismo di voto per la futura Camera dei Deputati.
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Noi siamo fra quelli che non credono nella possibilità di tale esito, ma certo non ci piace affatto né l’attuale legge elettorale, che verrebbe sperimentata per la prima volta nel 2018, né la rivisitazione costituzionale, che sarà sottoposta al vaglio elettorale il prossimo 4 dicembre.
In tal senso, riteniamo che il nostro Paese possa, vista l’odierna situazione, muoversi verso un sistema maggioritario assai prudente, quale può essere quello francese, che prevede il doppio turno di collegio con preferenza uninominale.
Contestualmente, però, bisogna decidere quale impianto di Stato creare: la riforma renziana, pur lasciando in vita il modello di democrazia parlamentare, di fatto crea una forte aporia, perché l’attribuzione di un premio di maggioranza amplissimo al partito, che vince il voto camerale, prefigura - di fatto - l’elezione diretta, in forma subdola, del Premier, che verrebbe a coincidere con il leader della formazione vincente.
Ed, allora, perché non si è onesti, così da riprodurre l’architettura costituzionale della Francia, che con la sua Repubblica semipresidenziale costituisce, in verità, un prototipo molto più corretto, in termini democratici, di quell’ibrido che nascerebbe in Italia per effetto della contestuale introduzione della nuova Carta e dell’Italicum?
Non sempre, le soluzioni di compromesso sono espressione di saggezza e di prudenza: in tal caso, producono un sistema spurio, che forse è più pericoloso di quelli che sono, manifestamente, iper-maggioritari e che ambiscono a creare una democrazia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto dal 1946 in poi.
Forse, un atto di onestà (o di coraggio) sarebbe stato necessario dal Premier nel corso di questi ultimi due anni?
O, forse, l’Italia è destinata ad incarnare un modello spurio, che dapprima in letteratura non era neanche reperibile, solo per consolidare l’autorevolezza traballante del Presidente del Consiglio?
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