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domenica, 25 settembre 2016 15:13 |
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Rosario Pesce
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Negli ultimi anni, la parola d’ordine della società italiana, oltreché della politica, è stata quella che, meglio di altre, indica un’ansia insita nell’uomo: il rinnovamento.
Si sa bene come tutti gli organismi, se non si rinnovano, sono destinati a perire, per cui la tendenza al cambiamento diventa un’opzione non solo virtuosa, ma strettamente necessaria alla continuazione della vita, sia pure sotto forme sempre differenti e cangianti.
Si sa come ad una generazione deve succedere un’altra; ad una moda una diversa e così via, in una logica che la filosofia e la morale hanno sempre indagato.
Di per sé, però, la parola rinnovamento non implica un giudizio di tipo qualitativo: gli organismi devono cambiare per legge di natura, ma non è detto che il rinnovamento produca un miglioramento rispetto al punto di partenza.
Un simile concetto trova la sua attuazione più valida e significativa nel campo della politica, invero non solo italiana, ma anche europea.
Il rinnovamento delle classi dirigenti europee, nel corso degli ultimi venti anni, ha portato all’affermazione di gruppi di potere, che non si sono sempre dimostrati all’altezza del loro compito.
Alla fine degli anni Ottanta, i vari Kohl, Mitterand, Craxi hanno costruito il primo, embrionale processo di unificazione europea, che ad un certo punto i banchieri – in modo particolare, quelli tedeschi – hanno trasformato profondamente, per cui le buone intenzioni originarie degli statisti, che abbiamo citato, sono andate smarrite.
Non è un caso se, oggi, il concetto di Europa unita genera moltissime antipatie, per cui non esiste Paese del vecchio continente dove non ci sia un movimento di pubblica opinione, che non aspiri a fare uscire la propria nazione da un’esperienza, che viene ritenuta oltremodo penalizzante per il futuro delle prossime generazioni, costrette a pagare i debiti di quelle precedenti in assenza di lavoro e di un orizzonte di crescita rilevante e sicura.
Pertanto, il rinnovamento ha portato frutti non positivi: il primato della politica ha lasciato il posto a quello della finanza e le grandi masse sono, sostanzialmente, fuori da processi economici, che tenderanno ad emarginarle sempre più.
I giovani troveranno lavoro sempre più difficilmente e, soprattutto, tale lavoro sarà sempre meno certo e gratificante.
In tale prospettiva, il rinnovamento ha segnato un momento di arresto della crescita, che si era realizzata nei decenni dopo il Secondo Conflitto Mondiale.
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Ma, gli eventi ed i processi vanno gestiti e governati, per cui compito di chi, oggi, si affaccia ad un ruolo dirigente, nella società e nella politica, è quello di limitare i danni, di correggere il tiro e di imprimere un nuovo respiro ad un processo, che avrebbe dovuto vedere le popolazioni continentali crescere ed approssimarsi verso le magnifiche sorti progressive.
Parimenti, in Italia è stata distrutta, alla fine degli anni Novanta, una classe dirigente, quella che aveva governato il Paese nei due decenni precedenti, ed è stata sostituita da un gruppo, molto spesso, di attori cinici ed improvvisati, costretti ad occupare un ruolo egemone, in assenza delle giuste competenze.
Rispetto ad un simile scenario, cosa fare?
Invertire la rotta?
In quale modo?
Forse, bisognerà aspettare che l’organismo sociale e politico ritrovi, da solo, i suoi giusti e virtuosi equilibri?
Sarà possibile una tale prospettiva?
O, forse, si verificherà un esito ultimo che sarà, ancora, ampiamente peggiorativo rispetto allo status quo ante?
Certo è che l’auspicio in un’Italia diversa ed in un’Europa migliore continua ad essere vivo, ma purtroppo esso è sempre più debole in funzione dei dati macroeconomici e delle realtà tristi del complesso mondo odierno.
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