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sabato, 17 settembre 2016 15:43 |
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Rosario Pesce
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È giusto che, nelle immediate prossimità temporali del voto referendario, ciascuno di noi prenda una posizione decisa in favore di una delle due opzioni in gioco, ben sapendo, peraltro, che i referendum confermativi delle riforme costituzionali non prevedono quorum, per cui coloro che andranno al voto decideranno sia per loro stessi, che per quanti non andranno al seggio.
Crediamo che, in un momento storico, come quello che stiamo vivendo, la riforma, che ora viene sottoposta al vaglio elettorale, rappresenta non solo un fattore di divisione fra quanti la sostengono e coloro che l’avversano, ma in particolare è un fattore di insidia per lo sviluppo della nostra democrazia, visto che interviene - molto pesantemente - sull’equilibrio dei poteri dello Stato, di fatto rendendo zoppo quello legislativo.
La riforma nasce da un accordo fra PD e PDL, che è stato l’asse dell’intera legislatura, sia ai tempi del Governo Letta, che di quello Renzi, ma ora abbiamo l’impressione che tale legge non abbia padri, per cui, tranne il Presidente del Consiglio ed i suoi accoliti, nessun altro intende mettere la faccia per difendere un lavoro, che ha tenuto impegnati i parlamentari per circa tre anni.
Il compromesso, che ha dato vita alla legge costituzionale, è stato fortemente voluto dall’allora Capo di Stato Giorgio Napolitano, visto che, all’indomani del voto del 2013, sarebbe stato - altrimenti - impossibile riuscire a comporre un Dicastero in un Parlamento, che appariva ingovernabile.
La riforma, nata quindi in un contesto politico non facile, ha contribuito ulteriormente a creare confusione, dal momento che l’esito ultimo prevede, in caso di vittoria del Sì, un Parlamento di fatto monocamerale, che diviene il centro di un sistema democratico, al cui interno molti contrappesi o non ci sono più o sono molto più deboli e fragili.
Peraltro, le ragioni di spesa pubblica, che hanno indotto a scegliere un Senato non elettivo, sono davvero assai opinabili, visto che si sarebbe potuto arrivare ad un risparmio analogo, se non maggiore, anche per altre vie, salvando il principio costituzionale del bicameralismo perfetto, che è più consono alla nostra storia istituzionale ed alla tradizione dell’Europa occidentale.
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Inoltre, appare evidente che il nuovo Parlamento, qualora prendesse corpo la riforma, sarebbe troppo condizionabile da pochissimi leader nazionali, i quali avrebbero la possibilità di nominare i deputati, mentre il Senato sarebbe popolato di consiglieri regionali, che andrebbero a Roma per perorare interessi localistici e non certo per entrare nel merito di scelte fondamentali per il nuovo Stato.
Pertanto, gli Italiani si trovano di fronte ad un bivio: o approvare un nuovo sistema istituzionale, sull’onda di un consenso (che, peraltro, non c’è più) per Renzi ed il renzismo, o far saltare il lavoro finora svolto dal Parlamento, auspicando magari una rinnovata azione riformatrice da parte di Camere, appositamente formate, che dovrebbero con molta più attenzione, nel corso della prossima legislatura, mettere mano alla riscrittura approfondita della Carta fondamentale dello Stato.
Sono pronti gli Italiani per dire NO ad una riforma approssimativa e scritta molto male, nonostante le migliori intenzioni del legislatore?
Noi crediamo che gli Italiani, per davvero, abbiano una tale maturità e, perciò, pensiamo che, dal giorno successivo del referendum, si possa iniziare a lavorare per un’Italia migliore di quella attuale e di quella che la riforma, sciaguratamente, vorrebbe costruire.
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