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sabato, 10 settembre 2016 16:47 |
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Michael Zeno Diemer (1867 - München- 1939 - Oberammergau) -Cancelliere Aulico alla corte del mecenate Federico II, Re di Sicilia, a palazzo della Favara con letterati, artisti e studiosi siciliani
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Rosario Pesce
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Fare il dirigente scolastico, di questi tempi, non è affatto impresa facile.
Le problematiche, da affrontare, sono numerose e, spesso, in beata solitudine: collaboratori o infedeli o svogliati o, comunque, non all’altezza della situazione; genitori portatori di interessi molteplici, alcune volte legittimi, altre per nulla; amministrazioni statali che dovrebbero collaborare e che, invece, sono latitanti, quando addirittura non producono danno sistematico all’azione della Scuola; scadenze burocratiche che, spesso, si moltiplicano e che mortificano il progetto di autonomia, che dovrebbe guidare chi si assume l’onere di rappresentare un’istituzione così complessa, come appunto quella scolastica.
In tale contesto, si trova ad operare - molto spesso - chi è alla ricerca del giusto stile dirigenziale da assumere, allo scopo di non rimanere vittima di dinamiche, che altrimenti potrebbero sfuggirgli di mano: chi da abile politico; chi da burocrate navigato; chi da riconosciuto leader educativo; chi, molto più semplicemente, con le arti della diplomazia e del buon senso, tutti insieme tentano di condurre la nave in porto, con alterna fortuna e con risultati che, sovente, non sono (o non appaiono) esaltanti.
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È evidente che, in un siffatto milieu, pur essendo il dirigente di carriera e non di nomina politica o elettorale, egli ineluttabilmente ricerca il consenso della comunità, scolastica e civile, al cui interno si trova ad operare, sapendo benissimo che un po’ di autorevolezza in più ed un riconosciuto primato sociale non possono che aiutarlo nella gestione dei conflitti, che è la principale problematica che si trova a dover risolvere, quando inizia il suo lavoro quotidiano.
Infatti, la capacità di prevenire il conflitto (ovvero, di risolverlo assai celermente, qualora fosse già scoppiato) si configura come la sua principale competenza, che talora si apprende dalle letture fatte, ma molto più spesso deve essere una dote innata, visto che – purtroppo – nei propri interlocutori si può incontrare, drammaticamente, il vizio opposto: la tendenza, anche per mero gusto fine a se stesso, a creare situazioni di rottura, che poi rischiano di divenire di difficile ricomposizione.
Invece, come si fa con un vaso rotto in mille cocci, il buon dirigente deve essere in grado di ricucire l’ordito della sua trama, sapendo bene che un’organizzazione professionale, unita e tendente ad un unico fine, può raggiungere il successo molto più facilmente di una Scuola dilaniata dal conflitto permanente fra pari ovvero fra il datore di lavoro ed i suoi subordinati.
Peraltro, le gratificazioni, certo, non sono copiose, a partire da un salario, che è di gran lunga inferiore a quello di un qualsiasi altro dirigente della Pubblica Amministrazione, che ha invero molte meno responsabilità del nostro povero d.s.
La domanda, allora, sorge spontanea: vale la pena divenire dirigenti scolastici?
La risposta, comunque e nonostante tutto, è affermativa, perché la ricerca del giusto stile dirigenziale, per evitare guai peggiori nella professione, coincide ineluttabilmente con una propria ricerca interiore ed esistenziale, tesa all’affermazione di un equilibrio, di una saggezza che devono guidare l’uomo, prima ancora che il dirigente, in ogni momento del vivere quotidiano.
La dirigenza, allora, come palestra di moderazione o, addirittura, di atarassia?
Probabilmente sì, così come non si può - in verità - negare che un ruolo di primato, professionale e sociale, non dispiace a nessuno e stuzzica la legittima ambizione.
D’altronde, non erano gli antichi Greci che ricercavano il “giusto mezzo” per l’uomo, sapendo bene che, solo per tal via, gli esseri umani non avrebbero mai mortificato né il Destino, né gli Dei, per cui avrebbero avuto un futuro di felicità e di prosperità?
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