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domenica, 04 settembre 2016 00:04 |
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Rosario Pesce
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Si discute animatamente da due giorni della vignetta, invero, assai infelice pubblicata dalla rivista francese Charlie Hebdo, che ritrae alla maniera di una lasagna gli Italiani colpiti dal sisma.
È vero che fare della satira sui morti è, sempre, un atteggiamento intellettuale molto pericoloso, perché si possono offendere delle sensibilità, tanto più in un caso, come quello del sisma, nel quale a perdere la vita sono, circa, trecento innocenti, che hanno pagato le colpe di tecnici e politici, che non hanno provveduto, in modo tempestivo, a favorire un’opera di messa in sicurezza del tessuto urbano antico di interi paesi.
Ma, nel caso specifico, non ci interessa dibattere intorno alle responsabilità penali di quanti non hanno agito per prevenire la tragedia, ma vogliamo approfondire quali debbano essere i limiti della libertà di opinione, quali debbano essere i confini che non si possono travalicare, se non si vuole offendere la dignità di quanti rischiano altrimenti la beffa, oltre al danno conclamato.
Sappiamo bene quali siano stati in passato i comportamenti della redazione della testata francese, che ha pubblicato vignette che sono apparse blasfeme alla comunità islamica, a tal punto che dei terroristi si sentirono obbligati a fare una strage, pur di lavare l’onta apportata alla religione di Maometto.
Quindi, Charlie Hebdo, da molti anni, eccede nella satira: è il suo target, è la sua linea culturale, che coraggiosamente porta avanti, correndo il rischio di subire delle ritorsioni atroci, come nel caso appunto della vicenda che ha avuto, poi, dei risvolti drammatici, con l’uccisione di molti suoi redattori per mano islamista.
Nel caso, invece, della vignetta afferente al terremoto italiano, i vignettisti di C.H. hanno poi corretto il tiro, realizzando una seconda opera, forse addirittura più infamante della prima, nella quale si recita, in modo testuale, che “la mafia, non la satira” ha ucciso i trecento abitanti dei centri colpiti dal sisma.
A noi, invero, la seconda pubblicazione appare ben peggiore della prima, perché alimenta sugli Italiani il luogo comune dell’essere mafiosi: un tempo, gli Americani hanno creato il falso mito di “pizza connection”; ora, i Francesi hanno creato quello della “lasagna insanguinata”.
È giusto che il nostro Paese debba subire tante ingiurie dalla stampa transalpina in nome della libertà di stampa?
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Si può chiamare, questa, libertà di stampa?
Entro quali paletti va ridefinita l’azione del giornalista, quando questi utilizza la sua penna (o la sua matita, nel caso dei vignettisti) per dare ridondanza a fenomeni sociali, più o meno, opinabili?
Non si può, certamente, chiudere la redazione di un giornale solo perché associa - infelicemente - alla mafia un intero popolo, come il nostro, ma neanche si può rimanere fermi nel subire giudizi, che sono offensivi della dignità e della moralità di milioni di cittadini italiani, che sono - appunto - vittime e non carnefici.
Cosa fare, allora?
In verità, ci appare paradossale il fatto che la terra, da cui tutto ciò è nato, sia quella dove scoppiò la Rivoluzione del 1789.
Essere opportunamente controcorrente, essere giustamente caustici e critici rispetto ad articolazioni della società odierna, non autorizza nessuno a prendersi beffa di un popolo intero.
D’altronde, se è vera libertà, anche quella di stampa finisce laddove iniziano le condizioni di vita necessarie alla crescita ed allo sviluppo del proprio simile.
Un giudice, forse, non potrà mai dirimere il conflitto fra un giornalista, che ha ecceduto, ed una nazione: solo, il sentimento di tolleranza può risanare le ferite aperte da una vignetta discutibile.
Forse, tre secoli circa dopo Rousseau e Voltaire, siamo proprio noi Italiani a dover dare una lezione di pubblica moralità ad un popolo, che – con Napoleone – ambiva, addirittura, ad esportarla in tutta Europa?
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