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domenica, 08 maggio 2016 07:58 |
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Rosario Pesce
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Uno dei drammi della democrazia moderna è rappresentato, certamente, dai costi della politica, che di per sé non facilitano lo sviluppo ordinato della democrazia.
Infatti, l’esplosione di tali costi rende, inevitabilmente, molto difficile la partecipazione da parte dei ceti più deboli, per cui, tanto a livello locale, quanto a livello nazionale, si rende necessaria la partecipazione di piccoli o grandi potentati economici, che naturalmente accettano di fare politica, unicamente, in vista del raggiungimento di propri obiettivi precipui.
Venti anni fa, l’esempio di Berlusconi fece scuola, per cui, nella sua scia, tanti altri imprenditori si sono lanciati nell’agone politico, ricoprendo incarichi importanti.
Peraltro, la crisi dei partiti e, quindi, l’esigenza di un rinnovamento profondo della classe dirigente del Paese, accelerarono questo processo, per cui il vecchio ceto di politici di professione, cresciuti in questa o in quella scuola partitica, fu sostituito da un nuovo gruppo di capitalisti, che hanno inciso non poco sulla storia della nostra nazione.
È pleonastico sottolineare che un buon imprenditore, per quanto bravo sia nel fare il suo mestiere, incontra ineluttabilmente delle difficoltà, quando entra in politica, visto che le istituzioni, che sono il bene pubblico per definizione, non possono certo essere governate con i medesimi criteri delle aziende private, perché di per sé lo Stato è cosa ben più complessa ed articolata di un soggetto aziendale, che nasce all’unico scopo di produrre profitto.
Così, gli imprenditori, affacciatisi alla politica, sono andati incontro a delle obiettive difficoltà, tanto più quando il loro vecchio mestiere è diventato motivo di incompatibilità con il nuovo, per cui, alla fine del secolo scorso, gli Italiani hanno scoperto il conflitto di interessi, che tuttora non è normato in modo efficace, contrariamente ad altri Paesi d’Europa, dove le regole sono molto dure, perché la stessa persona decide o di fare soldi o di rappresentare l’interesse pubblico, visto che non si può perseguire, efficacemente, un obiettivo duplice così composito
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Il frontespizio delle prima edizione dell'Indagine di Adam Smit
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In Italia, invece, il mondo dell’impresa, per lo più foraggiato dallo Stato, avverte la necessità di fare politica, perché questa ha, indubbiamente, aiutato le imprese a fare ricchezza, per cui si crea, al tempo stesso, un doppio male: per un verso imprenditori, che fanno impresa “assistita” e che, a volte, non sono capaci di procedere con le proprie gambe; per un altro, politici improvvisati, che confondono il bene pubblico con quello privato.
Eppure, da questa spirale perversa non se ne esce, visto che tutte le forze politiche hanno un tributo importante da rendere a questo o a quel capitalista, quando anche lo stesso capitalista non è, immediatamente, impegnato a rappresentare il proprio interesse personale attraverso l’impegno diretto.
Come si può, allora, uscire da un simile cul de sac?
Se ne esce, facendo una disciplina rigorosa, che regoli il conflitto d’interessi, e che in particolare consenta all’Italia di essere, compiutamente, una nazione moderna: altrimenti, la democrazia non potrà che divenire sempre meno attraente e trasformarsi, di volta in volta, in oclocrazia o in un’aristocrazia, che non si fonda invero su significativi valori morali e culturali, come quella ateniese agognata da Platone.
Riusciremo a divenire un Paese, finalmente, normale?
La risposta – temo – non può che essere negativa, visto che, ancora tuttora, il vizio del conflitto di interessi sporca molto dei candidati alle prossime elezioni amministrative di giugno, a dimostrazione del fatto che la politica è sempre più serva dell’economia e che, dunque, ci stiamo allontanando da una prospettiva irenica di sviluppo ordinato dei nostri istituti democratici.
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