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martedì, 01 marzo 2016 00:03 |
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Grande Torre di Babele (1563) di Pieter Bruegel il Vecchio (1526/1530–1569)
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Rosario Pesce
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La nostra società si arricchisce, sempre più, di nuovi fattori di differenza fra gli uomini: un tempo, era l’ideologia a dividere gli esseri umani.
Oggi, finalmente giunti in un tempo post-ideologico, altre sono le differenze che, talora in modo esaltante, talora in modo drammatico, tendono a dividere l’umanità in due o più gruppi.
Innanzitutto, le differenze economiche sono sempre più stridenti, per cui è evidente che, a seguito della crisi economica, divengono marcate le posizioni dei ricchi, sempre più ricchi, a fronte di quelle dei poveri, sempre più poveri, molto spesso ai margini dell’assoluta povertà e, dunque, dell’indigenza più nera.
Una simile differenza è foriera, ineluttabilmente, di molte altre: l’accesso alla ricchezza, infatti, fa sì che anche i diritti, giuridici e sociali, non siano più gli stessi, per cui non tutti possono accedere in egual maniera ai servizi essenziali, quali sono l’istruzione e la sanità.
Il Novecento aveva, almeno in parte, fortemente attenuato tali differenze di ordine economico, per cui, per effetto di opportune politiche, che esaltavano il ruolo dello Stato, si erano venuti a creare degli automatismi, che consentivano ampiamente di ridurre il divario, altrimenti drammatico, fra i due vertici della società, i ricchissimi e gli indigenti, appunto.
Oggi, invece, in tempi di liberismo dominante, lo Stato non ha più gli strumenti finanziari necessari per attenuare tali discrasie, per cui gli ultimi due decenni hanno visto crescere, oltre ogni pessimistica previsione, il gap fra gli ambienti più diversi della società, arrivando in alcuni Paesi d’Europa, come la Grecia, a prefigurare le condizioni di un vero e proprio conflitto di classe, che rappresenta per un verso l’effetto, per altro la causa del default dello Stato ellenico.
Alle differenze di ordine materiale, si aggiungono quelle di ordine culturale e razziale, che sono invece, almeno in teoria, un fattore mirabilmente arricchente della società, visto che, dalla fine del secolo scorso in poi e con un’accelerazione straordinaria nel corso dell’ultimo decennio, il nostro consesso sociale europeo si è venuto arricchendo della presenza di migranti, asiatici ed africani, che portano con sé la diversità del proprio colore della pelle ed, in particolare, la diversità della propria religione, che rappresenta il loro principale biglietto di presentazione, visto che si tratta, in moltissimi casi, di popolazioni di religione islamica, che accedono in un’area del mondo dove il principale credo è, chiaramente, quello cristiano, poco importa se di affiliazione cattolica ovvero protestante.
L’integrazione di questi nuovi cittadini europei rappresenta la scommessa più dura da vincere per il prossimo ventennio, dal momento che essi giungono in terre che sono state colpite dalla crisi finanziaria dell’inizio del nuovo millennio, per cui, in tali condizioni, l’accoglienza non può che essere problematica, perché ineluttabilmente, laddove c’è miseria, sorgono molto spesso forme moderne di conflitto permanente fra i poveri, che abbassano notevolmente la qualità dell’integrazione, impedendone talora la sua concreta realizzazione.
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Eppure, chi governa la società e lo Stato deve porsi come obiettivo l’integrazione delle differenze, dal momento che, solo così facendo, non solo si possono evitare guerre sanguinose, ma in particolare si può consentire un’esistenza irenica a chi non ha interesse alcuno a vivere in uno stato di “pòlemos” continuo.
Peraltro, la nostra cultura si presta, per definizione, all’accoglienza del diverso, visto che la moderna Europa è nata dal pensiero illuminista, che si pose il grande obiettivo di costruire una società al cui interno il bianco ed il nero, il cristiano ed il musulmano potessero vivere serenamente, così come era successo solo in alcuni casi sporadici e di grande fascinazione culturale nel corso del millennio medioevale.
Oggi, purtroppo, in qualche modo stiamo misurando il ritorno ad un nuovo e più tragico Medioevo, visto che lo spirito delle Crociate sembra essere tornato fra molti ambienti della nostra società, tesi talora a difendere l’esistente piuttosto che a costruire condizioni nuove di vita per le generazioni future, che pure molto dovranno fare per assicurare a loro stesse anni e decenni di benessere non discontinuo e, soprattutto, non effimero.
In tale cornice, molti sono quelli che soffiano sul fuoco, visto che, in caso di scoppio di un conflitto fra i diversi della nostra società, essi ipotizzano di trarne un vantaggio culturale, in termini di difesa della propria identità, ed a volte, molto subdolamente, credono di trarre finanche un vantaggio economico da guerre, che possono divampare ad ogni angolo di strada.
La si può dare vinta a chi scommette sulla guerra e sulla mancata integrazione delle differenze e dei diversi?
Crediamo, davvero, di no e speriamo perché questa condizione non si realizzi, visto che il trionfo dell’egoismo sociale e dell’interesse più bieco non solo sarebbe contrario ai nostri principi religiosi e culturali, ma in particolare sarebbe in controtendenza rispetto a secoli di formazione umanistica, che ha posto al centro della sua ricerca l’Uomo ed il soddisfacimento effettivo dei suoi più importanti bisogni, sia materiali, che spirituali.
Possiamo rinnegare l’Umanesimo, l’Illuminismo, il Cristianesimo a sfondo sociale per far trionfare una visione della società, che vedrebbe pochissimi in una condizione di indubbio vantaggio e moltissimi altri, invece, in uno stato di debolezza cronica da far sperare loro in una morte finanche precoce, pur di non subire discriminazioni ed umiliazioni costanti?
È ovvio che la Scuola e tutti i centri di formazione, esistenti nel nostro mondo, devono operare affinché il contenzioso venga ridotto e le differenze giungano ad una felice sintesi, che non deve però significare integrazione o mera assimilazione del più debole da parte del più forte, perché, in tal caso, il messaggio sarebbe ancora più esplosivo e pericoloso per quanti, in una visione d’insieme, guardano ad un mondo nel quale le guerre siano solo un lontano ricordo ed i motivi di differenza siano ridotti ad un fattore di arricchimento e non di deprivazione di opportunità in favore di persone, classi ed ambienti sociali molto complessi e variegati al loro interno.
Anche, la politica deve operare in tal senso, ma è ovvio che essa accusa un ritardo fortissimo su tali tematiche, perché è certamente molto più premiante portare avanti un messaggio di odio, piuttosto che di amore e di integrazione.
Ancora, la politica sembra non idonea ad essere portatrice di un simile valore fondativo, perché le pulsioni economicistiche hanno prevalso sulle ragioni ideali, per cui, quando l’istinto prevale sull’intelletto, è ineluttabile che i risultati siano scadenti e possano determinare conseguenze molto più tragiche, costituendo il presente la premessa per un futuro gramo ed all’insegna del fallimento di qualsiasi progetto possibile di convivenza.
L’uomo comune non può che auspicare un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni, ma da solo riuscirà a sopportare un tale carico di contraddizioni, che lo porteranno a soccombere rispetto alle ragioni del più forte e del più organizzato?
Cosa fanno, in tale dimensione, i vertici religiosi della nostra società per ripianare simili differenze e per fare della religione uno strumento di concordia sociale e non – machiavellicamente – uno strumento mero di potere?
Di fronte a tutti questi quesiti non possiamo non fermarci un attimo, ipotizzando che si possa sempre costruire un futuro migliore di quello che temiamo possa essere, solo se ciascuno di noi, nei limiti delle proprie funzioni professionali e civili, sarà in grado di lavorare per il cambiamento e per il miglioramento possibile del triste status quo ante.
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