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L’elogio de Il Migliore

lunedì, 05 gennaio 2015 16:51

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Francobollo sovietico commemorativo raffigurante Togliatti - dal sito: http://it.wikipedia.org/wiki/Palmiro_Togliatti
Rosario Pesce
Il 21 agosto del 1964 moriva Palmiro Togliatti, capo indiscusso del Partito Comunista e punto di riferimento ideale per i Comunisti italiani per molti anni, anche, dopo la morte. L’anniversario della dipartita è un’utile occasione per fare, a distanza di cinquant’anni, un bilancio della sua azione, visto che – come per i grandi leaders – essa è al centro dell’attenzione di molti studiosi, che, nel valutarla, arrivano naturalmente a conclusioni diverse.
Si è, sempre, parlato di una presunta doppiezza dei Comunisti italiani, i quali erano, per un verso, i garanti dell’ordine democratico nel nostro Paese, visto che lo stesso Togliatti ha avuto un ruolo determinante nella vittoria contro il Fascismo e, soprattutto, ha placato più volte i suoi compagni di partito, quando essi volevano cedere a qualche tentazione rivoluzionaria e golpista, dopo la sconfitta nelle elezioni del 1948; per altro verso, però, si contesta al Migliore – tale era il suo soprannome durante gli anni della Resistenza – e al partito di essere stati legati, a doppio filo, con l’Unione Sovietica ed, in particolare, con Stalin, che morì dieci anni, circa, prima di Togliatti.
Questa liaison con i Sovietici ha rappresentato, invero, l’elemento più inquietante della storia dei Comunisti italiani, i quali hanno, sovente, reclamato una loro “diversità” culturale rispetto al Comunismo russo, ma, in concreto, non hanno mai avuto il coraggio di distaccarsi, in modo netto, dallo stalinismo, finanche quando questo cominciava ad essere soccombente nella stessa madre Russia.
La posizione, che il Partito Comunista Italiano assunse sui fatti ungheresi del 1956, è esemplificativa della sudditanza culturale, che i nostri dirigenti – e, su tutti, lo stesso Togliatti – nutrivano nei riguardi della dirigenza sovietica, da cui tentarono a stento di acquisire indipendenza d’azione ed autonomia di giudizio, per cui dovettero aspettare venti anni per provare, con Berlinguer, ad avviare – anche se in modo deficitario – un percorso distinto rispetto ai diktat provenienti da Mosca.
Togliatti fu, certamente, l’uomo politico più amato dalla base comunista, in quanto egli rappresentava, agli occhi di chi credeva e si identificava nel PCI, il modello del leader, dotato di un’autorevolezza indiscussa e di un assoluto primato culturale/morale rispetto ai suoi stessi compagni e collaboratori; invero, l’ascesa togliattiana venne favorita dalla morte prematura di Gramsci, che, scomparso durante gli anni del Fascismo, avrebbe potuto essere una voce distante dal coro, se avesse avuto la fortuna di sopravvivere e di continuare a produrre pensieri e riflessioni, che avevano certamente un’originalità intellettuale molto più spiccata rispetto a quella del Migliore.
Togliatti, evidentemente, si trovò a recitare un ruolo per nulla comodo: egli era il Capo del più grande Partito Comunista dell’Europa occidentale, ma viveva e ad agiva in uno Stato nel quale la sua forza partitica non sarebbe potuta andare mai al Governo, a causa di un palese divieto internazionale, che imponeva la presenza italiana entro il quadro diplomatico costituito dal Patto Atlantico e, dunque, dall’alleanza imprescindibile con gli USA.
La storia non si fa né con i “se”, né con i “ma”: addebitare, oggi, a Togliatti la colpa di non aver, neanche, tentato di socialdemocratizzare il suo partito e di staccarsi, quindi, da Mosca non ha senso, perché, soprattuto quando imperava Stalin, se egli avesse percorso un sentiero dissimile, molto probabilmente avrebbe perso la vita, così come, venti anni dopo, accadde a Berlinguer, che rischiò di essere ucciso, quando, con la teorizzazione della cosiddetta “Terza Via”, si contrappose nettamente alla dirigenza sovietica, la quale, con la complicità dei Servizi Segreti della Germania dell’Est, organizzò un attentato ai suoi danni durante un viaggio nell’Europa orientale. Peraltro, Togliatti non era solamente il leader di un partito, sulla carta, legato a schemi rivoluzionari, ma rappresentava, per molte migliaia di Italiani, l’immagine del Liberatore da sofferenze secolari, dato che tutti i fatti storici più importanti, che avevano riguardato il nostro Paese, si erano consumati in un clima di massima disattenzione verso le problematiche della povera gente: la critica al Risorgimento e alla sua conclusione liberale, condotta da Gramsci, dimostra bene come esisteva in Italia una vasta area sociale, che era rimasta fuori da qualsiasi effettivo tentativo di liberazione ed affrancamento dal dolore e dal bisogno, che richiedeva, giustamente, ascolto ed attenzioni dalle istituzioni.
Togliatti a comizio - http://it.wikipedia.org/wiki/Palmiro_Togliatti
La politica del PCI fu tutta mirata a rappresentare quei bisogni in un’Italia che, anche dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, sarebbe rimasta culturalmente divisa fra Fascisti ed anti-Fascisti per molti decenni, per cui, agli occhi di molti, i democristiani, pur essendo stati co-protagonisti della Resistenza, apparivano come i prosecutori del regime mussoliniano, dal momento che, in alcuni momenti della storia degli anni Cinquanta, essi si comportarono non diversamente da come avrebbe fatto uno Stato di polizia: l’esempio di Scelba, Ministro degli Interni, è certamente quello più appropriato per raffigurare un’Italia che, appena uscita dal Fascismo, continuava a vivere sotto una cappa difficilmente compatibile con lo spirito di una democrazia avanzata e compiuta.
Pertanto, Togliatti, non potendo staccarsi da Stalin e non potendo dialogare con i molti Scelba di turno, che affollavano le stanze del - talora - corrotto potere democristiano, non poté che ritrarsi il ruolo dell’oppositore, che, fidando sulla forza di mobilitazione del proprio partito e di quella del sindacato, si faceva portavoce del disagio, economico e politico, di ampi strati della popolazione, a cui la nascente Repubblica avrebbe dovuto dare una risposta, se avesse voluto incarnare il modello di uno Stato democratico che, sebbene incompiuto, si avviasse a divenire, progressivamente, meno imperfetto e più vicino agli standard delle avanzate democrazie occidentali.
Togliatti seppe, inoltre, innovare la cultura morale del Paese: la sua storia sentimentale con Nilde Jotti fu il primo episodio importante grazie al quale gli Italiani avvertirono quanto importante potesse essere affrancarsi da una legislazione confessionale in materia di diritti civili: il divorzio sarebbe stato introdotto, circa, dieci anni dopo la morte del leader comunista, ma, in qualche modo, la sua vicenda personale fu un utile abbrivio perché l’Italia facesse un passo in avanti verso costumi più liberali e tolleranti.
Certo, Togliatti incarnò, per altro verso, il modello del politico che, non potendo sconfiggere gli avversari, fagocitava gli alleati per apparire meno debole e per evitare che terze forze prendessero piede in un sistema bipolare, che, invece, avrebbe dovuto rimanere bloccato nell’antitesi fra democristiani e comunisti: esemplare fu il rapporto che i Comunisti ebbero con i Socialisti, prima inghiottiti nel listone garibaldino del 1948 e, poi, per un decennio, lungo gli anni Cinquanta, trattati come l’alleato minore, che andava tenuto strettamente legato a sé, per cui, quando essi si allontanarono dal PCI, prendendo una posizione ben diversa sui fatti ungheresi del 1956, vennero condannati e bollati come traditori del verbo moscovita.
Agli storici tocca, invero, approfondire questi aspetti e capire quanto Togliatti e, soprattuto, il togliattismo abbia giovato alla Sinistra italiana nel suo difficilissimo compito di divenire maggiorenne, acquisendo finalmente la giusta autonomia dai poteri politico-militari stranieri – sovietici e degli altri Paesi dell’Est europeo – che non avrebbero dovuto condizionare, come hanno fatto, la storia italiana ben oltre il 1964 e, dunque, la morte dello stesso Togliatti.
Non si può, oggi, nel 2014 fare paragoni con gli attuali rappresentanti della classe dirigente del nostro Paese: esiste una differenza abissale fra quelli e questi; i primi erano fortemente alfabetizzati, molti di loro – come Togliatti – si possono considerare dei veri e propri intellettuali prestati alla politica, dato che, allora, si credeva ancora che la politica e, dunque, il servire il Bene altrui fosse la suprema attività dell’intelletto umano; oggi, purtroppo non sono, per lo più, presenti né il medesimo grado culturale, né la medesima moralità fra quanti si avviano all’attività di rappresentanza politica, perché essi o non posseggono altra professionalità o nutrono mere ambizioni arrivistiche, che solo la politica può soddisfare in tempi relativamente brevi, compatibilmente con la durata dell’esistenza umana.
In tal senso, rimpiangere Togliatti, De Gasperi, Nenni, La Malfa, Einaudi, Saragat, Pertini è un esercizio utile unicamente per la propria cattiva coscienza, visto che, poi, per effetto del voto, che noi stessi esprimiamo, il degrado del ceto parlamentare attuale è un dato ormai acquisito e, purtroppo, tendenzialmente irreversibile.
Forse, sarebbe giusto non solo rievocare la moralità di talune grandi personalità, che hanno contribuito a far grande l’Italia, ma attivarsi per ricercare, nella società odierna, quelle energie migliori, tuttora sopite, che potrebbero dare una svolta autentica ad un Paese, ormai, prossimo al tracollo?
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