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Guerra di nervi o di armi?

sabato, 21 novembre 2015 14:26

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Polizia a Bataclan, all'indomani degli attacchi terroristici.
Rosario Pesce
Quella contro il terrorismo si configura, effettivamente, come una guerra di altri tempi, visto che non esiste un nemico che si possa identificare con il nome di uno Stato in particolare e, parimenti, non esistono eserciti regolari che combattono de visu.
Un siffatto fattore, molto più simile alla guerriglia che non alla guerra, complica maledettamente l’opera dei nostri servizi di intelligence, che naturalmente devono verificare una tale quantità di informazioni incrociate, che inevitabilmente diviene molto fragile e precaria la loro opera di prevenzione e repressione.
Peraltro, a dire il vero, l’Occidente non era abituato a combattere delle guerre - sia pure anomale come questa - sul proprio suolo, ormai, dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale: infatti, dopo il 1945, tutti i conflitti hanno avuto una dimensione meramente regionale, visto che sul territorio del vecchio continente è andata in scena solo la Guerra Fredda, che si è combattuta con metodi e meccanismi originali, non coinvolgendo milioni di persone, come invece sta per fare la contrapposizione odierna al terrorismo di matrice islamista.
Quindi, a partire dall’attentato alle Torri Gemelle, l’Occidente ha rivisto di nuovo lo spettro della morte e questo rappresenta, purtroppo, l’elemento di forza dei terroristi: essi provengono da aree del mondo dove la morte violenta è all’ordine del giorno, mentre noi Occidentali dobbiamo, purtroppo, metabolizzare l’idea della morte cruenta, che fortunatamente da decenni non faceva più parte del nostro bagaglio, culturale e psicologico.
Dal momento che le guerre si combattono prima con i nervi e poi con la forza delle armi, è chiaro che un simile cambio di scena non può che indebolire la resistenza di noi Europei: la diffusione della paura, lo spettro di una morte prematura e cagionata da un assurdo odio religioso, la fobia dell’attentato nella stazione della metropolitana o all’interno di un teatro o di uno stadio sono elementi con i quali dovremo convivere nei prossimi anni, a meno che non la si voglia dare vinta a chi intende mettere in crisi il nostro sistema di vita e di valori, ormai consolidati.
Raduno spontaneo di cittadini davanti al ristorante Le Carillon
Diventa, quindi, una guerra sui generis, che ricorda per certi aspetti quelle di un tempo, quando il maggior numero di vittime era, innanzitutto, fra i civili e non fra i militari di carriera e tutta la popolazione, a qualsiasi ceto essa appartenesse, veniva comunque coinvolta, come succedeva appunto nel Medioevo o in età moderna, quando una fetta importante di cittadini morivano per gli effetti cagionati dalla guerra, pur non prendendo essi parte, direttamente, alle vicende del teatro bellico.
Quale sarà il nostro rifugio in tal caso?
È chiaro che la difesa dei valori di libertà, tolleranza, spirito critico, che sono il dna dell’Occidente a partire dal Settecento in poi, rappresenta il fine di una tale conflitto: chi si fa saltare in aria per uccidere un proprio simile, intende scardinare una siffatta tradizione, ma né al terrorista fanatico, né a chi fra noi parla o agisce solo perché compulsato da una reazione emotiva, si può consentire che l’Occidente rinunci ad una parte essenziale del proprio essere, quella che lo ha connotato come terra di progresso e di idee liberali, che tuttora presentano una fortissima attualità.
Si vincerà una scommessa di tal fatta?
L’Occidente saprà rimanere fedele ad un passato, che lo ha nobilitato grazie alla riflessione di chi ha insegnato il rispetto della persona, delle idee e della cultura altrui?
Solo nei prossimi anni conosceremo, in modo preciso, l’entità autentica dei danni, che l’attuale fase storica ha apportato alle certezze della nostra civiltà?
Certo è che non si potrà mai coltivare un tollerante spirito identitario, che non si traduca in tragico fattore di esclusione, se si dimentica la lezione di chi ci ha consentito di essere il faro dell’umanità per - almeno - due secoli.
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