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domenica, 09 agosto 2015 10:23 |
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Hiroshima: Il Monumento della Pace
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Rosario Pesce
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Dio è morto ad Hiroshima e Nagasaki, così come è morto nei campi di concentramento dei Nazisti e di Stalin.
È questo un dato inoppugnabile, visto che mai l’umanità ha conosciuto crimini così vasti, come quelli compiuti nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Oggi, ricorre il settantesimo anniversario dello sgancio della bomba atomica su Nagasaki, che, se per un verso pose fine al Conflitto, per altro ha costituito un precedente inquietante, perché da quelle date ormai famigerate, 6 e 9 agosto 1945, è iniziata la grandissima paura della Guerra nucleare, che di fatto si protrae tuttora, dal momento che tutte le potenze emergenti sono dotate di testate atomiche, che potrebbero essere usate in modo improprio per risolvere, finanche, conflitti di valenza regionale.
I morti di Hiroshima e Nagasaki non vengono mai a sufficienza ricordati dal mondo intero, perché quelle due stragi hanno, effettivamente, modificato in peius l’immagine del Novecento, cioè di un secolo che ha visto la più grande conflittualità fra opposti blocchi ideologici, così feroce da essere regolabile solo con il ricorso all’atomica contro le popolazioni civili.
Si può dire purtroppo che, per effetto del lancio di quegli ordigni militari, l’umanità abbia perso la sua innocenza adolescenziale e sia divenuta adulta nel peggiore dei modi possibili.
Le giustificazioni sul piano morale, addotte dagli Americani per il ricorso all’atomica, non hanno mai pienamente convinto: è vero che, infatti, le due bombe di Hiroshima e Nagasaki sono servite ad evitare altri morti nel corso di una Guerra, che durava ormai da sei anni, ma è anche vero che, per la prima volta, in modo deliberato l‘Uomo ha ucciso il suo simile, ben cosciente che gli effetti devastanti non solo sarebbero terminati in quelle due date, ma che, per intere generazioni, le radiazioni avrebbero comportato danni inenarrabili ad un’umanità, che avrebbe perso i tratti del proprio essere morale e civile.
Nel corso dell’età moderna, di fronte ai più sconvolgenti disastri della natura, i filosofi europei si sono posti il quesito classico della teodicea: “Si Deus est, unde malum?”, cioè “Se Dio esiste, da dove proviene il male?”, senza naturalmente trovare una risposta esauriente, che per via razionale non è formulabile.
Al cospetto delle tragedie, che hanno riguardato le città giapponesi, si amplifica ancora di più il dramma derivante dall’assenza di una possibile risposta al sorgere di un Male, di cui l’Uomo non solo è stato destinatario inconsapevole, ma addirittura finanche l’artefice.
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Il cenotafio del Parco della Pace di Hiroshima
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Per la prima volta, si è sperimentato concretamente il concetto di distruzione di massa, in grado peraltro di reiterarsi per decenni, visto che, tuttora, gli effetti delle atomiche si avvertono su una popolazione, che, per effetto delle radiazioni, ha subito il cambiamento profondo del proprio genoma, oltreché della propria psicologia collettiva.
Kennedy, parlando a Berlino, dopo la costruzione del Muro, ebbe a dire che si sentiva compiutamente cittadino berlinese, volendo così sottolineare il carattere transnazionale del dramma, che in quel momento stava vivendo la Germania divisa in due. Orbene, mutuando l’espressione famosa del Presidente statunitense, l’umanità si sente, di volta in volta, giapponese, curda, ebrea, palestinese, ecc., volendo identificarsi con tutte le etnie che hanno subito devastazioni per mano dei loro simili, ma in nessun caso la storia diventa maestra di vita, per cui gli orrori, commessi una volta, si ripetono sempre identici a se stessi, anche con una maggiore portata violenta, visto che i mezzi, messi a disposizione dalla tecnologia, consentono di fare stragi su scala sempre più ampia e devastante.
L’umanità, per tal strada, rischia dunque di commemorare eventi tragici, salvo poi non fare nulla per evitarne la ripetizione.
Ad esempio, è ben noto che, nel corso di questi settant’anni, il nucleare sia stato ancora usato per portare a termine conflitti, che hanno avuto una valenza di livello locale, per cui, pur non venendo menzionate da nessun testo di storia, ci sono popolazioni che hanno rischiato l’estinzione perché, contro di loro, sono state usate armi non convenzionali.
Quando, allora, l’Uomo imparerà dai suoi errori e, finalmente, comincerà a non perpetrare l’omicidio, consapevole e barbaro, del proprio simile?
Forse, bisognerà aspettare una nuova generazione, nell’auspicio che gli avanzamenti delle scienze, collegate all’arte militare, non acuiscano i peggiori sentimenti umani?
O, forse, bisogna rassegnarsi ad un presente gramo e ad un futuro non migliore, nel corso dei quali l’Uomo ucciderà il simile, semplicemente, facendogli venire meno il necessario per la sua sopravvivenza, per cui la strage si consumerà in modo, ancora, più atroce e disperante?
Se riuscirà ad imparare dai propri errori, forse l’umanità eviterà il compiersi di viltà, che certo non sono edificanti per nessuno, a meno che non si voglia arrendersi alla certezza per cui il Male è il dato strutturale del nostro “dasein”, del nostro essere al mondo, cosicché quel quesito della teodicea moderna diventa, a maggior ragione, un mero flatus vocis, buono solo per dotti, ma inutili dibattiti di natura politico-teologica.
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