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lunedì, 05 gennaio 2015 17:02 |
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Arbeit macht frei, ("Il lavoro rende liberi"), la menzogna nazista tristemente famosa. Fu posta all'ingresso del lager di Dachau, di Auschwitz e di molti altri campi, costruiti o riconvertiti invece, per praticare lo sterminio con il lavoro
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Rosario Pesce
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Il 20 novembre del 1945 si apriva, a Norimberga, il processo contro i gerarchi nazisti, che non erano scappati, in occasione della capitolazione di Berlino, o che avevano preferito essere processati, anziché suicidarsi.
Come ogni altro processo politico, quello di Norimberga aveva un esito scontato, che solo in parte poteva fare giustizia per gli orrori messi in essere dalle dittature di Hitler e Mussolini; infatti, l’intervento statunitense serviva a rimettere le cose a posto nella storiografia, che si andava consolidando, ma certo le condanne a morte, pronunciate dalla Corte, non potevano ripagare le vittime della vita persa, né potevano restituire ai Tedeschi la dignità necessaria, che essi avevano smarrito, visto che la popolazione era stata, per un lungo periodo di tempo, complice dei misfatti del Nazismo.
Peraltro, la giustificazione, addotta dagli ufficiali del Terzo Reich, non poteva, invero, reggere: proclamarsi innocenti, solamente perché non si poteva dire di ‘no’ ad ordini provenienti da autorità superiori, era un alibi non credibile non tanto dinnanzi ad un tribunale civile, quanto piuttosto davanti a quello della storia e della morale.
Infatti, ciò che ha sempre colpito della vicenda nazista ed, in particolare, degli orrori che furono consapevolmente perpetrati all’interno dei campi di concentramento, fu l’ottusa abnegazione con cui le masse popolari della Germania degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta partecipavano alla cattura delle famiglie ebraiche, per cui, grazie ad una complicità diffusa, fu possibile per Hitler mettere in piedi la più cruenta persecuzione razziale, che l’Occidente ricordi.
D’altronde, finanche la comparazione dei gulag staliniani con i lager tedeschi non regge: Stalin doveva governare un Paese sterminato ed articolatissimo da un punto di vista politico ed etnico, per cui il ricorso allo sterminio di massa delle minoranze era lo strumento a cui non poteva non ricorrere chi doveva costruire il più imponente Stato totalitario dell’Europa orientale.
Quella di Hitler fu, invece, una scelta deliberata, che andava oltre le stesse ragioni storiche della persecuzione; nessuna delle motivazioni possibili è in grado di giustificare la violenza del Terzo Reich contro chi apparteneva ad una razza e, dunque, ad una religione diversa.
L’accusa, mossa contro gli Ebrei, di essere stati i responsabili della morte di Cristo ovvero l’aspirazione ad entrare in possesso delle enormi ricchezze della finanza semitica sono cause che, solo parzialmente, possono contribuire a fornire una ragione all’odio, che la dittatura nazista seppe creare, ad arte, contro cittadini che, fino alla Prima Guerra Mondiale, avevano fatto a pieno i loro obblighi di Tedeschi, morendo, insieme a cattolici e protestanti, sul fronte di battaglia per la comune patria germanica.
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Fürstenfeldbruck, nei pressi di Dachau, monumento alle vittime della marcia della morte
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L’apparente semplicismo dell’alibi, offerto dai gerarchi, circa l’impossibilità, da parte loro, di contravvenire ad ordini superiori, rappresenta poi l’elemento più illogico dell’intera vicenda storico-giudiziaria, che non si concluse, neanche, con il Processo di Norimberga, dato che - per molto tempo ancora - i Servizi Segreti di Israele hanno dato la caccia ai notabili nazisti, scappati in America Latina sotto falsa identità, a volte con l’aiuto, economico e logistico, degli stessi Statunitensi ovvero della Chiesa Cattolica, che dimostrò la sua ambiguità in merito all’Olocausto, sia negli anni in cui esso si compiva, sia nei decenni immediatamente successivi, quando - appunto - protesse chi si era macchiato di reati efferati, non meritando perciò né la pietà, né una complice assistenza nella fuga.
Tuttora, ci si chiede come sarebbe stata l’Europa, se i crimini nazisti non fossero mai stati commessi; è un quesito che, forse, non avrà risposta, tanto più in un momento storico triste, come quello che stiamo vivendo, in cui la Germania sta catalizzando su se stessa gli odi di un intero continente per le politiche impopolari, che impone all’Unione.
Nessun paragone è possibile con il passato: la Merkel non è Hitler, né si potrà riprodurre nel prossimo futuro la situazione degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, anche se, a volte, è difficile reprimere, da parte dei Tedeschi, un istinto di potenza, che, pure in forme diverse e compatibili con la democrazia, si esprime ai danni degli Stati più deboli d’Europa.
Forse, sarebbe necessario che gli organismi comunitari riacquistino la credibilità e l’autorevolezza, che oggi non hanno al cospetto della pubblica opinione europea e di cui, in passato, hanno goduto gli Stati nazionali, almeno fino a quando essi non hanno ceduto quote rilevanti della loro sovranità all'Unione, in particolare in materia di politica monetaria, fondamentale per i destini delle comunità, perché, da questa, discende la prospettiva virtuosa di sviluppo economico.
Sapremo costruire una nuova Europa, che impedisca il ripetersi di fatti disumani, come l’Olocausto?
O, forse, lo spirito dell'identità europea è, ancora, immaturo, per cui crescono nazionalismi che, in futuro, potranno essere, finanche, più pericolosi di quello nazista?
L’Europa è, ora, ad un bivio: ripetere il male indicibile o scegliere, senza esitazione, la strada della crescita civile?
Non possiamo non auspicare che le classi dirigenti conoscano bene i pericoli derivanti dalle loro scelte e, di conseguenza, agiscano per non ripetere crimini, rimossi fin troppo rapidamente dalla memoria collettiva.
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