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Il ritorno alla Prima Repubblica

lunedì, 06 gennaio 2020 21:06

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Rosario Pesce
Ormai, è sempre più diffuso un sentimento di nostalgia verso la Prima Repubblica in molti settori della pubblica opinione, come se quel periodo storico e quella fase istituzionale del Paese rappresentino, comunque, ancora il meglio della nostra storia repubblicana, nonostante gli scandali, gli omicidi e le stragi che, pure, li caratterizzarono e che insanguinarono le strade italiane.
La fine della Prima Repubblica, nel corso del biennio 1992/94, fu invero cruenta: la morte violenta dei giudici più impegnati ed esposti mediaticamente sul fronte della lotta alla mafia; gli arresti per corruzione, concussione o per complicità e connivenze mafiose di moltissima parte della classe dirigente del Paese, che nel corso degli anni precedenti aveva governato l’Italia ed aveva rappresentato un utile argine all’ascesa al potere del Partito Comunista.
Da quel momento in poi, nuovi equilibri politici ed istituzionali sono stati ricercati invano, visto che i partiti, che sono nati dopo la fine di quelli della Prima Repubblica, si sono per lo più sciolti come neve al primo sole nell’arco di una stagione assai breve, dimostrandosi dei meri comitati elettorali privi di una cultura politica autonoma, che potesse assicurare loro la sopravvivenza, anche, dopo la conclusione di questa o quella leadership più o meno carismatica.
Non è un caso se gli Italiani, finanche dopo la caduta dei partiti storici del Novecento, hanno continuato ad identificarsi con i nomi ed i simboli delle culture tradizionali: ci si chiama ancora in modo nostalgico “democristiani”, “comunisti” o “socialisti”, come se quei partiti fossero - tuttora - delle realtà concrete dello scenario parlamentare odierno.
Ed, anche in termini istituzionali, nonostante la riforma del Titolo V della Costituzione intervenuta nel 2001, i valori di riferimento sono sempre quelli della Carta del 1948, a dimostrazione che l’espressione “Prima Repubblica”, nata per distinguere fasi diverse della storia repubblicana e di conio tipicamente giornalistico, è in qualche modo bugiarda, perché una Seconda o una Terza Repubblica non sono mai nate né nella sostanza politica, né nella forma giuridica.
Si rende, quindi, necessaria l’apertura di un dibattito storiografico intorno ai meriti delle classi dirigenti che furono spazzate via dalle indagini delle Procure di Milano, Napoli e Palermo?
Forse, si scoprirà che Craxi, Andreotti, Forlani (giusto per citare i nomi dei leader nei quali, meglio di altri, si identifica quel periodo della storia italiana) furono degli uomini al servizio dello Stato che, nonostante i processi e le condanne subite in sede penale, hanno - comunque - perseguito un interesse pubblico negli anni nei quali sono stati al Governo ed hanno gestito un potere enorme?
Certo, è difficile per un Paese ricostruire la propria identità, a partire da una memoria condivisa, quando i fatti sono stati oggetto di una feroce e cruenta contrapposizione fra parti ideali e fazioni partitiche, ma è necessario, se si vuole che l’Italia possa essere un Paese normale, riaprire il dibattito e, lontano da integralismi ed ideologismi, approfondire meglio i meriti (e, perché no, gli errori politici) di un ceto dirigente che ha avuto l’abilità di portare l’Italia ad essere la quinta potenza economica mondiale nel corso degli anni Ottanta.
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