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lunedì, 02 marzo 2015 22:49 |
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Rosario Pesce
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Le ultime vicende politiche ci suggeriscono una riflessione più profonda, che va ben oltre il mero dato di cronaca: negli ultimi venti anni, quanto è peggiorata la qualità di vita degli Italiani nell’ottica del loro rapporto con le istituzioni?
Quanto, in particolare, è mutata la percezione, che gli stessi hanno dei politici, che li governano?
Quando scoppiò Tangentopoli, si credette che il Paese fosse giunto al punto più basso della sua vita comunitaria.
Nonostante quell’idea fosse corroborata da un clima diffuso di tragedia nazionale, che allora si visse in modo quasi parossistico, non ci si può non ricredere, se si pensa che, all’epoca, per un semplice avviso di garanzia, Ministri e potentati di vario genere si dimettevano dai loro incarichi, mentre oggi, finanche, a fronte di una condanna, seppur non definitiva, si ha la pretesa di continuare a stare nel gioco istituzionale, assumendo atteggiamenti da veri e propri ràs.
I dati sulla corruzione evidenziano che le indagini, condotte in questi anni dalla Magistratura, non hanno mutato le usanze dei nostri concittadini, per cui oggi si ruba più di prima ed, in particolare, l’amore verso la Cosa Pubblica è andato scemando progressivamente, talché il singolo cittadino si riconosce nella difesa di interessi privatistici, molto spesso a scapito di quelli generali.
C’è, quindi, da rifondare l’ethos della nazione?
La risposta sembra affermativa: infatti, la rifondazione di un Paese, prima ancora che da un punto vista economico e politico, deve realizzarsi sul piano dell’etica, che fonda qualsiasi altro ambito civile susseguente.
Non si può immaginare di stare nelle istituzioni, se si ritiene che la forza del consenso possa trascendere il senso della legalità, per cui un protagonista della vita politica – poco conta se di Destra o di Sinistra – deve avere il coraggio – in altre nazioni, sarebbe la normalità – di lasciare tutti gli incarichi pubblici, fino a quando non si siano chiariti aspetti di natura personale, che affondano la loro ragion d’essere in profili giudiziari di rilievo penale.
Ma, come si può riformulare l’ethos di un popolo, che tende ad identificarsi nel potente di turno, a cui è solito chiedere, per grazia ricevuta, un favore o l’assistenza in vista di una clientela?
La morale nasce da momenti di lotta importanti, che segnano in modo indelebile la storia di un popolo: purtroppo, noi Italiani non siamo mai stati protagonisti di un evento di portata eccezionale, come i Tedeschi e gli Olandesi, che hanno messo in scena la rivoluzione protestante, come gli Inglesi, che per primi hanno creato il Parlamento, o come i Francesi, che hanno dato vita alla più grande stagione di liberazione umana dalle tristi schiavitù del feudalesimo e dell’assolutismo.
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Il nostro Paese è stato, per oltre un millennio, sotto il giogo di potenze non-italiane, da cui ha imparato a chiedere per ottenere, sotto forma di favore, ciò che avrebbe dovuto reclamare per diritto.
I due eventi storici, cui pure si fa riferimento spesso per individuare la genesi della coscienza nazionale, rappresentati dal Risorgimento e dalla Guerra di Liberazione dal Nazi-Fascismo, non sono stati sufficienti per creare uno spirito civile, perché essi hanno presentato moltissimi limiti, a partire dalla presenza decisiva dello straniero, in particolare dei Francesi, nel primo caso, e degli Alleati nel secondo, per cui, neanche in quelle due decisive contingenze, gli Italiani sono stati, compiutamente, protagonisti del loro destino, individuale e di gruppo.
Non è un dato sorprendente, se si dice che moltissimi dei nostri concittadini - ad esempio, nel 1945 - salirono sul carro del vincitore, quando capirono che il loro amato ràs era caduto in disgrazia, come accadde per Mussolini, il cui cadavere venne oltraggiato da chi lo aveva osannato, solo pochi giorni prima, in occasione del suo ultimo comizio al Teatro Lirico di Milano.
In siffatte condizioni, è dunque davvero difficile immaginare la catarsi di una popolazione, che sovente si è offerta al migliore acquirente, nel convincimento che, senza pane, non si può vivere e che, quindi, per acquisirlo si può rinunciare, finanche, alla libertà ed alla dignità personale.
Forse, nei prossimi anni, i nuovi Italiani, che nasceranno sul suolo patrio dalle donne, che ora arrivano per effetto dei flussi migratori, sapranno cambiare il dna della nostra stirpe?
Non lo sappiamo e, forse, non lo potremo mai verificare di persona, perché dovranno passare, certo, diverse generazioni, prima che si produca un mutamento tanto radicale, quanto necessario per imprimere la svolta ad una nazione, che – per non morire – è solita affidarsi all’Uomo di turno della Provvidenza, venendosi a trovare, poi, sistematicamente molto peggio di come stesse prima.
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