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Libia nel caos Isis: gli italiani rimpatriati

mercoledì, 25 febbraio 2015 23:25

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Presidente AIRL: Giovanna Ortu nell'anfiteatro romano a Sabrath
Mafalda Bruno

L'Italia lascia la Libia. L'unica Ambasciata europea ancora operante, la nostra, è stata alla fine costretta a chiudere la sede diplomatica ed effettuare il rimpatrio in nave degli ultimi italiani rimasti.
L'AIRL, Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia, nata nel 1972, riunisce i 20 mila italiani che, nel luglio 1970, furono espulsi dal Paese da Gheddafi, appena salito al potere.
Ha ottenuto riconoscimenti e attestati prestigiosi presso i più alti livelli delle Istituzioni italiane e della realtà nazionale.
Allo stesso tempo, l'Associazione, da sempre osservatorio attento e consapevole della realtà libica, ha partecipato emotivamente e concretamente alla coraggiosa battaglia del popolo libico per liberarsi dalla quarantennale dittatura di Mu'ammar Gheddafi.
Per commentare le notizie sul caos polveriera che oggi investe la Libia, FtNews ha intervistato la Presidente AIRL, Dottoressa Giovanna Ortu.

Presidente, dopo la caduta di Gheddafi si era aperto uno spiraglio di speranza: quali sono le sue valutazioni alla luce delle recenti evoluzioni terroristiche?
Posso solo dirle che, seguendo costantemente la situazione in Libia, ho notato un graduale, progressivo, peggioramento rispetto all'atmosfera di festa che aveva accompagnato la fine del regime e questo, nonostante i ripetuti inviti, da parte soprattutto dell'Italia, ad avviare un processo di riconciliazione.

Il rientro degli ultimi 100 italiani conferma quanto sia drammatica la situazione dopo la presa di Sirte da parte dei miliziani del Daesh.
Per assurdo, dobbiamo rimpiangere Gheddafi?
Aveva ragione il figlio che dopo la sua morte decretò: "con l'uccisione di mio padre, ora la Libia diventerà un inferno simile alla Somalia?"

Non credo sia possibile in questo caso scegliere quale sia il male minore, perché non bisogna dimenticare, ad esempio, che Gheddafi ha sterminato in poche ore 1600 oppositori rinchiusi nel carcere di Abu Salim.
Per quanto riguarda il rientro dei nostri connazionali, data la drammaticità della situazione, la nostra Ambasciata il primo febbraio aveva invitato i pochi italiani ancora presenti nel Paese a rientrare e, successivamente, a tenersi pronti per un rimpatrio protetto che è avvenuto il 14 febbraio su un catamarano scortato da militari del Tuscania e mezzi aerei. Anche i pochi dipendenti dell'Eni ancora in Libia hanno lasciato il paese.
L’Ambasciata è stata chiusa in quanto, come ha sottolineato il ministro della Difesa Pinotti, costituiva un bersaglio.
Tripoli: anni '50 - Scuola elem. villag. Oliveti
In cosa hanno mancato le nostre Istituzioni e quelle europee?
Poca lungimiranza? Poca tattica diplomatica? Poco tempismo?

Rientriamo in quello che può essere il mio apporto all'approfondimento del problema. È un contributo di carattere essenzialmente emotivo: posso dirle con quanta partecipazione io e tutti noi rimpatriati del 1970 abbiamo vissuto il viaggio dei nostri connazionali; un esodo completamente diverso dal nostro ma ugualmente drammatico: noi eravamo 20.000 e loro solo un centinaio; noi lasciavamo quello che avevamo considerato il nostro Paese, non in quanto ex colonizzatori ma per i profondi legami di consuetudine e affetto con un popolo, al fianco del quale avevano vissuto due o tre generazioni di italiani; lasciavamo lì case e cose, risparmi e pensioni, per iniziare una nuova, difficile, vita in una Patria che, è bene ricordarlo, fece poco o nulla per renderci giustizia e per quel rispetto dei diritti che ancora attendiamo.
Una cosa tuttavia mi sento di affermare, rispondendo alla parte finale della sua domanda: mai avrei pensato che l'occidente decidesse di appoggiare, con enorme impegno, anche economico, gli insorti libici e sostenere il loro comprensibile anelito di libertà, senza prima accordarsi sul dopo, sulla necessità cioè di accompagnare un popolo riemerso da una ultra quarantennale dittatura nel difficile processo verso la democrazia.
Do atto, peraltro, al governo italiano di essersi impegnato in ogni modo, sia a livello esecutivo, con Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, sia attraverso il nostro Ambasciatore in loco, Giuseppe Buccino Grimaldi, anche se purtroppo il risultato positivo non c'è stato.
Mentre il nostro Ministro degli Esteri, Gentiloni, riceve minacce dirette, il premier Renzi continua a spingere per un intervento militare sotto l'egida ONU. La soluzione è cercare un accordo prima politico e diplomatico oppure è necessario un intervento armato ora e subito?
Anche questa domanda andrebbe rivolta a analisti strategici e non a me, se non altro perché la mia emotività mi impedisce di essere razionale.
È certo comunque che l'intervento armato, sempre nel quadro delle Nazioni Unite, è l'ultima opzione alla quale speriamo di non dover arrivare; ma il margine di ottimismo è davvero molto stretto.

Il vescovo di Tripoli, Padre Innocenzo Martinelli, ha dichiarato: "Io di qui non mi muovo. Che mi taglino pure la testa". Cosa pensa della sua scelta?
È la nobile risposta del cristiano, del pastore che, giustamente, non vuole abbandonare i pochi cattolici rimasti in un clima di intolleranza, così incredibilmente lontana da quella atmosfera di autentica integrazione con mussulmani ed ebrei nella quale noi abbiamo avuto la fortuna di vivere e operare in Libia per decenni.
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