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mercoledì, 25 febbraio 2015 10:52 |
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Rosario Pesce
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Sta andando in scena, in questi giorni, uno scontro istituzionale importante fra il Presidente del Consiglio e quello della Camera, volto a definire, nel modo più preciso possibile, le competenze del potere esecutivo rispetto a quelle del potere legislativo.
È ben noto, infatti, che i Governi nel nostro Paese, per aggirare le lungaggini, previste dall’iter di approvazione delle leggi, tendono a fare abuso della decretazione d’urgenza, facendo ricorso a questa, finanche, quando mancano le condizioni, perché essa possa essere legittimamente adita.
Ieri, il Governo è stato duramente ammonito dalla Presidente della Camera, che ha invitato il Dicastero Renzi a non ricorrere alla decretazione, per avviare l’approvazione della riforma della Rai, che è questione fin troppo importante, perché si possa consentire che la discussione parlamentare venga mortificata con l’utilizzo della scorciatoia del decreto legge.
Naturalmente, Renzi ed il vertice del PD si sono risentiti per il richiamo della Boldrini, anche perché è inusuale che il Presidente di uno dei due rami del Parlamento faccia riferimento così esplicito alla strategia politica dell’Esecutivo, mettendone in discussione la legittimità sul piano costituzionale, visto che, nel merito dei provvedimenti, non può entrare per ovvie ragioni di opportunità.
Le parole del Presidente della Camera sono ampiamente giustificate, dato che riflettono un disagio diffuso, perché, nel corso degli ultimi anni, tutti i Dicasteri hanno fatto uso eccessivo di uno strumento, qual è appunto quello del decreto, che dovrebbe essere adito, invece, solo quando esistono obiettive e pressanti condizioni di urgenza, che suggeriscono all’Esecutivo di avocare a sé i poteri del Parlamento, di fatto creando una condizione di eccezionalità in una democrazia parlamentare, nella quale il dibattito politico non dovrebbe mai essere sottaciuto o, peggio ancora, mortificato.
Purtroppo, i regolamenti di Camera e Senato, che sono stati di volta in volta emanati, non hanno mai consentito un’effettiva velocizzazione dei tempi di approvazione delle leggi, per cui, ineluttabilmente, la decretazione d’urgenza è diventata, nel tempo, lo strumento più comodo per quei provvedimenti che, pure, non presentano elementi, che imporrebbero il ricorso ad una strategia così ridondante ed invisa ai Senatori e Deputati, le cui prerogative costituzionali vengono per tal via, pesantemente, limitate.
La contrapposizione fra Governo e Parlamento non è mai uno spettacolo auspicabile, visto che i due poteri politici dello Stato devono collaborare fra loro, al fine di creare le condizioni per una governabilità del Paese, tanto più in un momento nel quale è in discussione un progetto di riforma costituzionale, che mira a modificare non solo i criteri elettivi di una delle due Camere, ma le stesse competenze, che sono alla base del principio del bicameralismo perfetto, che la nostra Costituzione del 1948 ha sancito in modo solenne.
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Infatti, qualora nasca nel cittadino comune la sensazione che l’Esecutivo ha proposto un disegno di riforma della Carta, finalizzato a ridimensionare pesantemente gli spazi di agibilità politica della democrazia parlamentare, in nome di un principio discutibile di efficacia dell’azione – pur legittima – del Governo, potrebbe innescarsi un meccanismo non virtuoso, per cui in molti nascerebbe l’opinione che le riforme si fanno, meramente, per punire questo piuttosto che quel potere riottoso dello Stato e non per migliorare le condizioni oggettive della nostra democrazia.
Se così fosse, non solo il Premier dovrebbe giustificare al Capo dello Stato il ricorso eccessivo alla decretazione d’urgenza, anche su materie che di fatto non la richiederebbero, ma dovrebbe illustrare alla pubblica opinione il motivo per cui ha elaborato uno schema di nuova Costituzione, nel quale è contemplata una Camera, che soggiace all’Esecutivo in virtù di una legge elettorale, che rende non elettiva la maggioranza dei deputati, ed è prevista l’esistenza di un Senato, composto di soli consiglieri regionali, che non danno la fiducia all’Esecutivo e che, soprattutto, entrano nel processo legislativo solamente su pochissime materie, che poco o nulla incidono con gli ambiti tradizionali dell’azione - in politica interna ed estera - del Governo.
Siamo ad un punto di svolta della legislatura in corso: o si faranno, infatti, le fatidiche riforme costituzionali, per cui l’Italia cesserà di essere una compiuta democrazia parlamentare, acquisendo un carattere marcatamente leaderistico, pur non diventando - de iure - una Repubblica presidenziale, o si consoliderà il sistema attuale, magari emendando i difetti presenti, ma non rinunciando alle conquiste, di cui dobbiamo essere grati ai Padri Costituenti ed a quanti, in nome della libertà, si sono sacrificati negli anni della contrapposizione al Fascismo e della Guerra di Liberazione.
Noi, nella querelle fra il Premier ed il Presidente della Camera, non possiamo non simpatizzare per la Boldrini, vista la ragionevolezza giuridica delle sue tesi ineccepibili e visto il garbo istituzionale, con il quale le ha pronunciate.
Forse, il Governo, nelle prossime settimane, cambierà finalmente atteggiamento, non riducendo le Aule parlamentari a mere assemblee, la cui ragione d’essere sarebbe, esclusivamente, l’approvazione di provvedimenti, concepiti e scritti altrove, e non la loro preventiva discussione e complessa elaborazione politico-formale?
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