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sabato, 14 febbraio 2015 10:41 |
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Il presidente della Repubblica Enrico De Nicola firma la costituzione italiana alla presenza di Alcide De Gasperi - il 27 dicembre 1947 - Foto AP/LaPresse
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Rosario Pesce
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Sta andando in scena in Parlamento l’ennesima farsa: quella delle riforme costituzionali.
È evidente che, dopo l’elezione del Capo dello Stato e la rottura conseguente del Patto del Nazareno, non esistono più i numeri per riformare la Costituzione, a meno che non si voglia usare l'iter riformatore, all’unico scopo di allungare i tempi di sopravvivenza della legislatura in corso, per consentire - così - ai parlamentari eletti, che rischiano altrimenti di non rientrare in Parlamento, di allungare i tempi della loro precaria permanenza a Montecitorio ed a Palazzo Madama.
Il percorso delle riforme, già prima della rottura fra il PDL ed il PD, si presentava accidentato ed irto di non poche contraddizioni: a maggior ragione, consumatosi lo strappo fra Berlusconi e Renzi, il PD non è in grado, da solo, di mettere mano alla Carta e di modificarla così profondamente, come pure - all’inizio della legislatura - sembrava possibile.
Il progetto renziano, pertanto, pare sfumare, benché lo stesso Premier possa trarre solo benefici da una situazione siffatta: incassato, infatti, il varo della legge elettorale, di fronte ad ulteriori difficoltà, egli potrebbe chiedere a Mattarella di sciogliere le Camere e di andare al voto, per dare inizio ad una nuova legislatura, effettivamente utile per cambiare, in profondità, la Costituzione del 1948.
Le difficoltà, però, non sono poche: la legge elettorale, l’Italicum, entrerà in vigore solo nel 2016, per cui, qualora le Camere dovessero essere sciolte nel corso del 2015, si andrebbe alle elezioni con il dispositivo previsto dalla Consulta, cioè un sistema proporzionale puro, privo di soglie di sbarramento ed, in particolare, del fatidico premio di maggioranza, che consente al partito, che vince, di incassare la maggioranza assoluta dei seggi camerali.
Inoltre, andare al voto, in assenza della nuova disciplina costituzionale, significherebbe tenere in piedi il bicameralismo, per cui, nel futuro Parlamento, le due Camere continuerebbero ad avere i medesimi poteri, che hanno in quella attuale, non semplificando così la vita ai Governi, che dovessero nascere nei prossimi cinque anni.
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Pertanto, le minacce del Premier, volte ad ottenere l’accelerazione dei lavori di Camera e Senato, per approvare – almeno, in prima lettura – il nuovo testo costituzionale, appaiono velleitarie, perché i deputati ed i senatori sanno bene che, nella condizione odierna, nessun Presidente della Repubblica scioglierebbe il Parlamento, dato che, con il dispositivo vigente, aumenterebbe sensibilmente il rischio di ingovernabilità, con grave detrimento per la qualità della nostra democrazia e per l’efficacia del processo riformatore, ormai destinato a rimanere fermo al palo, così come succede da venti anni a questa parte, ogni volta che si tenta di modificare – finanche, solo, in parti residuali – la Costituzione del 1948. Ancora, ci sembra poco proficuo l’atteggiamento della maggioranza del PD, che, allo scopo di prendere il pieno possesso del partito, ha sempre più snobbato le proposte della minoranza interna, volte a migliorare il testo della legge elettorale, dal momento che le maggiori critiche all’iter di riforma costituzionale derivano dalle conseguenze create dal combinato disposto dell’Italicum con il discutibile progetto monocamerale di Renzi.
Così facendo, il Premier, nonché Segretario Nazionale del Partito Democratico, si è chiuso in un cul de sac, perché - per quanto possa sforzarsi di fare campagna acquisti fra i dissidenti grillini ed i parlamentari di Forza Italia, che seguono le indicazioni di Verdini e non di Berlusconi - è chiaro che, in assenza di una chiara maggioranza politica in entrambe le Camere, diventa arduo, se non impossibile, tentare di modificare sia una legge ordinaria, come quella inerente al meccanismo di voto, sia una legge costituzionale, come quella che aspira a cancellare il bicameralismo perfetto ed a creare un monocameralismo, che certo renderebbe il Paese più facilmente governabile, anche se più esposto ai rischi di una leadership tanto carismatica, quanto potenzialmente autoritaria e, nei fatti, marcatamente anti-democratica.
Non possiamo, peraltro, non assistere allibiti agli spettacoli indecorosi, che i parlamentari stanno mettendo in scena alla Camera, visto che litigi ed incontri di boxe, all’interno di un’Assemblea elettiva, stridono fortemente sia con il ruolo di rappresentante popolare, sia con le richieste, che si alzano dalla pubblica opinione, la quale chiede al ceto politico la stessa efficacia ed efficienza, che le leggi prevedono sia per la Pubblica Amministrazione, sia per le imprese private, impegnate a concorrere - con i loro avversari - sul mercato interno ed estero.
Forse, siamo alla vigilia di una nuova, tragica Weimar?
L’inconcludenza dei partiti e la crisi economico-finanziaria sono due fattori che, combinati fra loro, possono creare una miscela potenzialmente molto pericolosa: speriamo che la ragionevolezza dei deputati e, soprattutto, il grande carisma del nuovo Presidente della Repubblica possano disinnescare una situazione foriera di disgrazie, se non dovesse cambiare rapidamente ed, in particolare, se non evolvesse nel verso giusto.
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