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Il dialogo come metodo

venerdì, 23 marzo 2018 18:43

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Rosario Pesce
È evidente che la nostra società soffre per la mancanza di dialogo a qualsiasi livello, sia nei luoghi comunitari, che in quelli meramente informali.
La cultura occidentale si costruisce sul dialogo: chi ha dimenticato la lezione di Socrate?
È ovvio che ciò che fa crescere il valore culturale ha, intimamente, anche un significato politico, nel senso più nobile della parola.
L’Italia, in particolare, purtroppo per una tradizione consolidata che deriva dal Medioevo, quando si divise in Guelfi e Ghibellini, in Comuni e Signorie fra loro contrapposti, è riuscita a ricostruire un autentico tessuto sociale con molte difficoltà.
È noto che le due esperienze della Prima Guerra Mondiale e della Resistenza hanno avuto un’importanza rilevante per un popolo, che fino agli inizi del Novecento viveva in un Paese, che era ridotto allo status di mera espressione geografica.
Ora, ripartendo da valori comuni e condivisi, è necessario forse realizzare un identico sforzo di rigenerazione del sentimento della comunità, perché troppe volte nella vita sociale, come in quella istituzionale, le ragioni dello scontro e del conflitto, purtroppo, prevalgono su quelle della condivisione di una comune prospettiva di vita.
È, questo, il salto di qualità che noi tutti dobbiamo realizzare, ciascuno di noi per l’ambito di competenza e per il ruolo professionale che riveste all’interno del consesso sociale.
È ovvio che non si tratta di un’impresa facile, perché è molto più facile distinguersi piuttosto che riconoscersi in elementi di continuità che possono far sentire i singoli come componenti di un’organizzazione molto più ampia ed articolata.
Peraltro, i valori dell’Ottocento e del Novecento, che sono stati una malta magnifica per mettere insieme persone e sogni, sono venuti meno, per cui i fattori aggreganti, odierni e futuri, non possono che differenziarsi rispetto a quelli del recente passato.
Ma, ne va dell’esistenza stessa della società post-moderna: o si vince la scommessa della convivenza pacifica o si finisce vittima di un continuo ed ininterrotto conflitto, che alla fine logorerà tutti e non darà né vincitori, né vinti, visto che verranno meno le ragioni essenziali dello stare insieme.
Forse, un nuovo comunitarismo di matrice religiosa può aiutare?
O, forse, bisognerà ripartire dall’analisi degli errori commessi dall’ultima generazione, per evitare di ricadere in uno sterile e, finanche, dannoso sentimento fazioso?
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