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martedì, 02 gennaio 2018 18:41 |
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Rosario Pesce
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Ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere Ferdinando Imposimato qualche anno fa, in occasione di una mia breve vacanza in Toscana e di un Congresso politico, cui era stato invitato e cui partecipò suo malgrado.
Il rapporto, nato per puro caso, si consolidò a tal punto che ebbi modo di portarlo a Montoro, presso la sede dell’Istituto Alberghiero, ove prestavo servizio da docente, per un convegno con il Prof. Festa dell’Università di Salerno, che riscosse uno straordinario risultato in termini di partecipazione e di entusiasmo.
Da quel momento in poi, intensa fu la corrispondenza per mail fra me e lui: era solito rispondere in modo puntuale ai miei articoli, spesso con l’ironia che lo ha sempre contraddistinto.
Egli si portava dietro il carico morale di eventi di grandissima importanza, di cui ha sentito sempre il peso della responsabilità in prima persona.
In primis, la morte del fratello, ucciso all’unico scopo di ferire lui e di indurlo a lasciare la Magistratura, visto l’impegno che aveva profuso in alcune inchieste di grandissimo rilievo mediatico e penale.
Poi, fortissimo era il suo rammarico per aver compreso, poco e male, il sistema istituzionale nel momento storico in cui svolgeva la sua professione di responsabile dell’Ufficio Inquirente del Tribunale di Roma.
Egli, infatti, era consapevole di aver compreso a pieno il sistema politico solo dopo la sua uscita dalla Magistratura, per cui tale ritardo non gli aveva consentito di arrivare a dei risultati giudiziari, cui sarebbero giunti - invece - molti anni dopo altri suoi illustri colleghi.
Era una persona mite, molto saggia ed intuitiva, nonostante - a volte - potesse mostrarsi finanche istintivo.
L’eredità di affetti della sua famiglia è stata, sempre, la costanza della sua vita: dei nipoti ne parlava come se fossero dei figli, così come del fratello morto ne ha parlato sempre come se fosse stata una presenza costante al suo fianco, viepiù dopo l’omicidio.
La vita successiva alla sua uscita dalla Magistratura è stata interamente dedicata alla ricerca di quella verità, che avvertiva di aver solo sfiorato nelle vesti di giudice inquirente.
Ma, si sa bene che la verità storica è ben diversa da quella giudiziaria, visto che la seconda richiede un percorso di verifica ben diverso dalla prima, che si può professare, finanche, in modo apodittico.
Era, sempre, molto fermo nei suoi convincimenti, ma pronto al confronto o alle curiosità, che gli poteva stimolare un giovane, come me.
Certo, gli ultimi anni della sua vita, che lo hanno contraddistinto nell’impegno politico al fianco di un partito in particolare, gli hanno alienato le simpatie di molti, che non hanno compreso bene perché un autorevole esponente delle istituzioni potesse schierarsi con una forza anti-sistema.
Ma, benché opinabile, certamente nobilissimo è stato il suo agire dell’ultima fase della vita: d’altronde, l’unico leader politico, che ha amato per sua stessa ammissione, è stato Berlinguer, che gli propose la candidatura agli inizi degli anni Ottanta nel PCI in quota di indipendente.
Forse, a modo suo, il giudice Imposimato ha dato continuità a quell’implicito impegno morale assunto con Berlinguer, quando ha scritto cose di un certo peso storico contro personalità insigni delle istituzioni, ma si sa bene che ognuno di noi ha il proprio carattere e questo molto spesso ci porta lontano dalle ragioni di mera opportunità.
A modo suo, è stato un eroe civile di grandissimo livello intellettuale e culturale: invero, povera è quella nazione, che ha bisogno di eroi.
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