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Integrazione o assimilazione?

sabato, 19 agosto 2017 20:53

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Rosario Pesce
La vera dicotomia, in rapporto ai grandi flussi migratori, è la seguente: integrazione o assimilazione?
Non è la prima volta nella storia dell’Occidente che le nostre terre vengono interessate da un fenomeno migratorio di vaste dimensioni: l’Europa, anzi, è nata per effetto dello spostamento di individui dall’Asia Minore verso Occidente, che vennero a colonizzare le aree del Mediterraneo, dando vita alle più grandi civiltà del passato, una su tutte quella greco-ellenistica.
Peraltro, come oggi, anche allora, non solo venivano a scontrarsi fra di loro razze diverse, ma soprattutto il fattore religioso non sempre era condiviso, per cui, dall’Estremo e dal Medioriente, arrivarono in Occidente i culti monoteistici, da cui prese le mosse, sul piano dottrinario, anche il Cristianesimo.
Pertanto, l’Europa vede la sua storia fortemente intrisa dalla dinamica delle migrazioni, che sono state sovente un fattore di accelerazione di processi, che altrimenti non si sarebbero mai attivati.
D’altronde, si sa bene che la contaminazione delle razze, degli usi, dei costumi, delle tradizioni è un elemento di arricchimento delle civiltà, che, se rimangono per troppo tempo identiche a loro stesse, rischiano seriamente di scomparire.
Ma, nel caso attuale, ci troviamo di fronte a complessità, dapprima ignote.
In primis, le ingenti dimensioni dei flussi migratori, che peraltro intervengono in un momento di stasi dell’economia europea, mentre si sa bene che, generalmente, un Paese riceve nuovi cittadini, quando i suoi processi economici e produttivi sono in fase progressiva.
Inoltre, mentre si svolgono tali processi migratori, per altro verso l’Occidente è colpito da una fase bellica sui generis: quella del terrorismo islamista, che colpisce in modo indifferenziato e che, soprattutto, rende ancora più invisi quei poveri diseredati, che attraversano il Mediterraneo, per entrare a far parte delle nostre società, che sono comunque più evolute e dinamiche di quelle da cui essi provengono.
Ma, qual è la risposta, che è in grado di mettere in piedi l’Europa di fronte ad un’emergenza siffatta?
Torniamo, così, al dilemma iniziale: integrazione o assimilazione?
È ben noto che, quando in epoca moderna, Paesi importanti, come Francia e Regno Unito, sono stati interessati da analoghi flussi migratori, la risposta di noi Occidentali è stata quella dell’assimilazione, per cui si è tentato, in modi diversi, di far divenire i “nuovi” Europei perfettamente identici ai “vecchi”, inducendoli ad abbandonare le loro abitudini di vita ed, in particolare, la loro visione del mondo e del rapporto fra Stato e religione.
Oggi, l’assimilazione non può essere praticata e chi vorrebbe metterla in essere, deve comunque non farvi manifesto riferimento, anche perché appare molto difficile ed improbo il tentativo di spingere milioni di persone a non credere più in Allah o a rinunciare al burqa o a mangiare la carne di maiale o ad entrare, da fedeli, in un luogo di culto cristiano.
Pertanto, l’unica via possibile è quella dell’integrazione, rispettosa quindi delle diversità, che vanno viste come elemento di arricchimento e non di depauperamento della società odierna.
Ma, passare dalle parole alla pratica quotidiana non è cosa facile, soprattutto quando l’integrazione lascia ipotizzare un modello sociale, le cui articolazioni devono essere costruite, almeno, nell’arco di una generazione e non possono essere messe su nel giro di pochi mesi.
Il livello di conflitto, per tal via, non può che aumentare, tanto più quando a soffiarvi sopra sono centri di potere economico e politico, che hanno interesse a rendere il clima più pesante di quanto già esso non sia.
Ed, allora, torna il desiderio – mai sopito – dell’assimilazione: il pensiero comune ipotizza che, con le maniere forti, si possa indurre un islamico a non essere più tale, come se fosse possibile realizzare un implicito baratto fra sopravvivenza e rinuncia alla propria identità, proprio come facevano i Nazisti ed i Fascisti con gli Ebrei, costretti a divenire cristiani, se non volevano essere trasferiti, in modo coatto, nei campi di concentramento.
Ma, fortunatamente, oggi non esistono più né i Nazisti, né i Fascisti, né i lager, per cui diviene, per davvero, assai difficile ipotizzare di mettere in piedi degli strumenti di minaccia, per incutere timore e per costringere le persone a fare ciò che esse, volontariamente, mai farebbero.
La scommessa dell’integrazione, dunque, deve essere vinta con gli strumenti della persuasione democratica e non con quelli della coercizione dittatoriale, a meno che qualcuno, in modo subdolo, non immagini di usare - assai pretestuosamente - il tema dell’immigrazione per realizzare una svolta autoritaria della società e, quindi, dello Stato che ne è l’immagine più fedele sul piano delle istituzioni civili.
Come si vede, ci troviamo di fronte ad una questione epocale per gli equilibri mondiali nel corso del XXI secolo.
Integrarsi o scomparire, questo è il vero dilemma.
D’altronde, è evidente che, se l’elemento autoctono e quello di recente ingresso dovessero confliggere fra di loro, ci troveremmo in presenza dell’incipiente implosione del mondo occidentale, perché una guerra di civiltà fra il bianco ed il nero, il cristiano e l’islamico non può che preannunciare la fine del mondo, che abbiamo studiato dai libri e che abbiamo conosciuto, per via empirica, dalla nostra esperienza vissuta.
Siamo capaci, dunque, di costruire un percorso lungo ed irto di difficoltà?
O, forse, siamo al tramonto di una civiltà, quella occidentale, che è già morta molte volte, per poi rinascere molto diversamente?
In tale contesto, siamo per davvero tutti dei migranti clandestini, alla ricerca dell’isola perduta che possiamo rinvenire, solo se impariamo a riacquisire il piacere della collaborazione e dell’empatia fra esseri umani.
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