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domenica, 23 luglio 2017 12:21 |
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Rosario Pesce
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È evidente che il PD stia attraversando una crisi irreversibile, visto che, da due anni a questa parte, sta mancando tutti gli obiettivi prefissati.
Non si tratta solo di numeri – che, pure, in politica sono essenziali – ma di sostanza.
Renzi, ma soprattutto il renzismo, è caduto in crisi e, perfino, gli Dei della Sinistra, che lo hanno sempre sostenuto, pare che lo abbiano abbandonato.
Un esempio: “La Repubblica” ed il suo editore, De Benedetti, ormai da qualche settimana, non sono più annoverabili fra i renziani di stretta osservanza.
È ovvio che, a pochi mesi dallo scioglimento delle Camere e, quindi, dalle elezioni generali, pare tardivo soffermarsi in questioni che avrebbero dovuto essere affrontate, quando c’era ancora il tempo per farlo.
Una leadership alternativa a Renzi, sia all’interno del PD che nel variegato mondo della Sinistra, non è comparsa, per cui – a tutt’oggi – siamo condannati a vedere il Segretario Nazionale del partito come il candidato ufficiale alla Presidenza del Consiglio nel prossimo mese di febbraio.
Ma, siamo certi che Renzi è, tuttora, vincente?
È pleonastico sottolineare che molti dei suoi progetti siano saltati in aria e che il suo seguito popolare, oggi, è molto più debole di quanto non lo fosse nel recente passato, a dimostrazione del fatto che l’erosione di consensi non solamente è stata continua, ma in particolare ha interrotto il rapporto virtuoso fra la pubblica opinione nazionale e la personalità, su cui gli Italiani maggiormente hanno investito dopo il crollo di Berlusconi e la fine del berlusconismo.
Leadership alternative non si evidenziano: Pisapia si è dileguato nel giro di poche settimane, mentre Prodi, al massimo, può ritagliarsi il ruolo di padre della patria, ma invero non può candidarsi alle elezioni del 2018, ventidue anni dopo l’esperienza del primo Ulivo del 1996.
Ed, allora, il PD è condannato alla sconfitta?
Parrebbe di sì e sarebbe una sconfitta sonora, senza appello, perché il partito, che è nato dalla fusione di pezzi del PCI e della DC, corre il serio rischio di essere la terza forza del Paese, dopo la Destra e il M5S, attestandosi su valori elettorali ben lontani da quelli di Bersani, tanto criticati da Renzi all’indomani del voto politico del 2013.
Ed, a livello locale, le cose certo non vanno meglio, con ceti dirigenziali il cui operato andrebbe messo seriamente in discussione, visto che le sconfitte, alle elezioni amministrative del 2016 e del 2017, non sono figlie solo della parabola discendente del renzismo all’interno della società italiana.
Ma, sappiamo bene come, a volte, sia difficile rinunciare a postazione di potere, finanche quando questo è effimero o, addirittura, assente.
Pertanto, siamo tutti in attesa di una catarsi per effetto di un crollo elettorale non opinabile: rimane da stabilire solo se, a trarne giovamento, sarà il populismo della Destra post-berlusconiana o quello a cinque stelle, ma questa è già un’altra storia, che merita una distinta narrazione.
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