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L’Italia che brucia

domenica, 16 luglio 2017 00:58

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Rosario Pesce
Le scene degli ultimi giorni, con i numerosissimi incendi che hanno devastato l’Italia meridionale, sono purtroppo la dimostrazione di un Paese in grave condizione di disagio, incapace di difendere il bene comune per definizione, il verde e la natura.
Purtroppo, finanche la ricerca delle cause di simili eventi può non essere sufficiente per evitare simili disastri in futuro.
È evidente che la soppressione della Guardia Forestale può essere uno dei fattori, che ha inciso in modo significativo sulla debolezza della risposta, che è stata messa in essere contro i piromani.
Ma, è altrettanto ovvio che i roghi degli ultimi giorni dimostrano quanto flebile sia il senso di legalità in molte aree del Paese, dove la criminalità è nelle condizioni di compiere reati efferati, senza sostanzialmente pagare dazio alcuno.
Peraltro, non si può neanche ipotizzare che i fuochi siano stati appiccati per favorire la speculazione edilizia, visto che la norma vigente impedisce che si possa costruire nei luoghi che sono stati oggetto di incendi dolosi, perpetrati per evidente mano criminale.
Così come non si può rimanere colpiti, se si pensa che il Vesuvio è diventato, per effetto degli incendi dell’ultima settimana, una vera e propria “terra dei Fuochi”, devastata sia nelle aree meno edificate, che in quelle più prospicienti i caseggiati, che sorgono alle sue pendici.
È ovvio, dunque, che di fronte ad uno scenario siffatto pensare che il responsabile sia uno solo è inverosimile: le responsabilità sono ampie e molto diffuse, per cui nessuno, né ai livelli locali, né a quelli centrali, può sottrarsi ad imputazioni, almeno, di valore morale.
Eppure, la nostra etica cristiana dovrebbe portarci a rispettare il verde e la natura, in quanto identificano, per definizione, il creato del Signore.
È evidente che, finanche, i principi della nostra religione, di fronte alla speculazione ed alla possibilità di produrre ingenti profitti, molto spesso vengono calpestati.
Ed, allora, sorge spontanea una domanda: quanto, ancora, può vivere una società che distrugge il patrimonio pubblico per definizione, quello ambientale e naturalistico?
L’uomo moderno ha posto in essere le condizioni, tecniche e scientifiche, per una trasformazione del reale, ma non certo per la sua distruzione, dal momento che distruggere il contesto, in cui si vive e si opera, equivale a porre le premesse per estinguere, nel giro di pochi secoli, la stessa forma di vita umana.
Forse, ci stiamo avviando ad un suicidio di massa, cagionato da ragioni di vile danaro?
O, forse, nel giro di pochi decenni, saremo destinati a trasferire la nostra vita altrove (magari su altri pianeti), dove ancora la mano umana non ha compiuto devastazioni e distruzioni?
Certo è che, depauperando o distruggendo il nostro ambiente, abbiamo posto le condizioni per un abbassamento significativo della qualità della vita e questo, purtroppo, non era affatto il fine per cui hanno operato e lavorato le generazioni precedenti.
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