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Venti di guerra

lunedì, 17 aprile 2017 10:27

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Il lancio di un missile balistico alla tv nordcoreana
Rosario Pesce
Spirano, sempre più forti, venti di guerra in Asia, che ineluttabilmente avranno conseguenze in tutto il mondo.
È evidente, infatti, che la crisi coreana può essere un motivo di pericolo per l’intero orbe, visto che, in quel quadrante, si scontrano due visioni, politiche e militari, ben diverse: da una parte, la Corea del Sud, foraggiata e sostenuta dagli Usa; dall’altra, la Corea del Nord, che potrebbe trovare sostegni internazionali, ben oltre quello della sola Russia.
Infatti, a distanza di trent’anni circa dalla caduta del Muro di Berlino, è evidente che la contrapposizione fra Statunitensi e Russi è tornata prepotentemente alla ribalta, anche per effetto dell’elezione di Trump, che, nei primi mesi della sua Presidenza, ha seminato odio in molte direzioni.
In tale contesto, non si può non rimarcare l’assenza di un ruolo strategico forte da parte dell’Europa, che assiste ad uno spettacolo simile in una condizione di spettatrice debole.
Non è un caso, se l’elezione di Trump ha preso molti di sorpresa, visto che l’Europa intera faceva il tifo per la Clinton.
Ma, la vittoria del candidato repubblicano non solo ha tolto certezze, che prima esistevano, ma soprattutto ha determinato un’accelerazione preoccupante in materia di armamenti e di corsa al conflitto su base planetaria.
Peraltro, come nel recente passato, le guerre su base regionale non possono non avere ripercussioni a livello internazionale, per cui l’eventuale scoppio di una guerra fra le due Coree riporterebbe il mondo intero alla condizione degli anni Sessanta del secolo scorso, quando in conflitto fra loro erano i due Vietnam, quello all’epoca foraggiato dall’Urss e quello sostenuto, militarmente, dagli Americani.
D’altronde, sorge spontaneo un quesito: un clima di guerra fa bene all’economia americana?
È evidente che Trump si sia trovato a fare il Presidente degli Usa nel momento peggiore per i conti statunitensi, per cui la ripresa di un’economia di guerra non può che essere, per gli Americani, un fattore in grado di far alzare il PIL.
Ma, al di là dei costi umani e morali, si può ipotizzare di rilanciare la prima potenza al mondo, riportandola al centro dello scacchiere internazionale in un ruolo di mero acceleratore dei conflitti e non di moderatore degli stessi?
È ovvio che, per tal via, rischia molto l’America, ma anche quanti – come noi Europei – siamo suoi alleati da decenni.
Non aver spento il fuoco del terrorismo islamista e, contemporaneamente, agevolare lo scoppio bellico in altre regioni del mondo - finanche laddove il conflitto non è imputabile al fattore religioso - non solo è imprudente, ma può essere l’inizio di una nuova epoca, nella quale la guerra prevale sulla pace, a prescindere dagli effetti devastanti della stessa.
Possiamo convivere con la paura del conflitto permanente?
Possiamo ritenerci immuni da questo pericolo, solo perché l’Europa, per fortuna, è distante dalla Siria o dalle due Coree?
Crediamo, invero, che il mondo stia subendo una brusca involuzione e, per tale sentiero, esso è stato condotto da una classe politica incapace, se non consapevolmente asservita ad un oscuro disegno di matrice, meramente, economicistica.
Ma, per tal via, l’umanità si salverà?
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