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domenica, 26 febbraio 2017 14:02 |
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Rosario Pesce
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È evidente che l’ultima scissione, quella che ha riguardato il PD, sia un ulteriore segnale della crisi, che i partiti stanno vivendo nel nostro Paese.
È una crisi che va avanti dal lontano biennio 1992/94, ai tempi di Tangentopoli, quando le formazioni dell’epoca vennero cancellate dalle inchieste dei giudici di Milano.
Da allora in poi, si è innescato un processo di delegittimazione della politica, che ha fatto sì che i partiti divenissero sempre più invisi alla pubblica opinione.
È inenarrabile la lista di quei partiti, che sono nati in questo ventennio e che sono poi scomparsi, alcuni in modo progressivo, altri in modo repentino.
Per molti anni, si è coltivata, sia a Sinistra che a Destra, la pia e fallace illusione del feticcio di un sistema partitico italiano organizzato alla maniera di quello anglosassone, con due - al massimo - tre partiti, destinati a governare il Paese in modo alternativo.
Si è verificato, purtroppo, che questa fosse, appunto, solo una mera e drammatica illusione, visto che i Governi sia di Destra, che di Sinistra sono tutti caduti sotto i colpi delle faide interne, più che per merito degli avversari di turno.
Così, dopo il fallimento renziano in materia di revisione della Costituzione, sancito con il referendum dello scorso 4 dicembre, è cambiato di nuovo il clima e noi Italiani stiamo riscoprendo una verità tragica, ma certamente inoppugnabile. Non siamo una nazione anglosassone: siamo legati piuttosto alla nostra tradizione, che fa del proporzionale il suo autentico punto di forza, ma anche il suo principale limite oggettivo.
Pertanto, due o tre partiti non saranno mai sufficienti per rappresentare tutti gli orientamenti, ma sarà inevitabile tornare alla tradizione della Prima Repubblica, quando erano ben cinque le formazioni che concorrevano a fare il Governo ed, almeno, due erano quelle che erano sedute, in modo sistematico, fra i banchi dell’opposizione.
Quindi, si può dire, senza timore alcuno di smentita, che sia fallito il sogno maggioritario di quanti, sia nel Centro-Sinistra che nel Centro-Destra, ritenevano che il nostro Paese potesse essere omologato alla tradizione anglosassone del bipartitismo o del bipolarismo, dimenticando che la nostra democrazia è molto più recente di quella inglese, dato che, oltre Manica, hanno conosciuto il Parlamento sin dal Medioevo, mentre da noi è stata una conquista, solo, recentissima.
Forse, abbiamo dimenticato il sogno (o incubo?) veltroniano del partito a vocazione maggioritaria?
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Forse, abbiamo omesso gli sforzi di Berlusconi, tesi a far dimenticare agli Italiani il concetto stesso di partito, in nome di un’idea pericolosa di democrazia plebiscitaria, che faceva dell’uso della televisione e dei media il surrogato della nostra, vecchia e cara democrazia rappresentativa?
O, forse, dimentichiamo il presente, fatto di formazioni populiste, xenofobe e demagogiche, che si dimostrano non all’altezza del loro compito, quando poi si trovano a governare realtà complesse?
La partecipazione è un valore, sempre e comunque, per cui non bisogna, invero, temere che, con un sistema elettorale di tipo proporzionale puro, possano rinascere i partiti (o partitini) del 3% o del 5%, perché quelli sono il vero sale della democrazia, quando ovviamente contribuiscono alla governabilità, arricchendo di contenuti l’azione dei Governi.
Non possiamo dimenticare, in verità, che il momento di massimo fulgore dell’Italia è stato quello relativo alla prima metà degli anni ’80, quando il leader di un partito, che non aveva oltre il 10% dei consensi, Bettino Craxi, in qualità di Premier, portò la nostra nazione ad essere la quinta potenza economica al mondo, potendosi sedere così Unito o Giappone.
Orbene, quello deve essere il nostro modello: un Parlamento, al cui interno le forze maggiori e quelle minori costruiscono, tutte insieme, una visione condivisa della nazione e dello Stato, dal momento che il vero mantra della nuova stagione devono essere i concetti di “condivisione” e di “responsabilità”, rispetto alle pericolose fughe in avanti, che si sono prodotte, invece, nel corso dell’ultimo biennio.
Peraltro, la fine del PD, con la scissione di questi giorni, dimostra anche un dato politico ulteriore: quel partito a vocazione maggioritaria, nato dalla fusione della cultura cattolica di Sinistra con quella ex-comunista, è fallito perché solo quelle due culture, per quanto nobili siano, di per sé non sono sufficienti ad assicurare il governo di una realtà complessa, ma al loro fianco è necessario - ed opportuno - che altre culture, come quella laica e socialista, diano il contributo necessario per giungere ad una sintesi di interessi ed idealità.
Pertanto, se la frammentazione del quadro politico non determinerà disorientamento, ma sarà la precondizione per mettere a giro, come si dice in gergo, nuove energie, nuove personalità ed originali contributi, non si può che essere soddisfatti degli esiti, che si stanno consumando, che certo hanno, almeno, il grandissimo merito di aver fatto chiarezza rispetto ad un’ipocrisia di fondo, che ha fatto danni all’Italia, nell’ultimo ventennio, molto di più della corruzione dei cinque decenni precedenti.
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