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L'Europa, un'espressione geografica?

mercoledì, 06 gennaio 2016 20:56

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Rosario Pesce
La vecchia, cara Europa non esiste più e questa - mi pare - è una verità incontrovertibile.
A partire dal crollo del Muro di Berlino nel 1989, ormai tantissime cose sono cambiate: gli effetti dei flussi migratori sono più che evidenti nel nostro continente, sul mutamento sia del quadro religioso, sia di quello razziale.
Nel corso di un quarto di secolo, sono nati nuovi Stati, che hanno preso il posto dei vecchi, in gran parte nascendo da conflitti, le cui conseguenze sono, tuttora, sotto gli occhi di tutti.
Il disfacimento della vecchia Jugoslavia, ad esempio, genererà effetti per decenni ancora, visto che, in quei luoghi, si sono consumati eccidi autentici fra Cristiani e Musulmani, Serbi e Croati, Occidentali ed Orientali, che, forse, difficilmente riusciremo a vedere nei prossimi anni con altrettanta ferocia.
Così come non si può omettere un dato importante: tutti i Paesi europei, e non solo quelli del Mediterraneo, hanno ricevuto milioni di immigrati, in alcuni casi ospitati ed integrati poi nella nuova realtà, mentre, in altri, purtroppo accolti in modo opinabile, destinati ad una pessima o mancata integrazione.
È ovvio che, in questo scorcio di secolo, sia cresciuta a dismisura la visibilità della Germania, che, dopo le difficoltà iniziali, derivanti dai costi della fusione fra le due aree, esistenti ai tempi della Guerra Fredda, ha dimostrato di possedere una dinamicità, che nessun altro Paese europeo, molto probabilmente, avrebbe ostentato in condizioni analoghe.
La nascita dell’euro, in tale cornice, è il dato che ha modificato, infine, in modo determinante il quadro, finanziario ed economico, della vecchia e cara Europa, di fatto creando al suo interno due fasce di Stati, destinati, sia pure sotto la tutela della stessa divisa, a procedere con velocità distinte.
Da una parte, la stessa Germania e la Francia, avviate a finanziare le proprie economie in virtù delle aree di libero scambio commerciale, che le hanno indubbiamente favorite, e - dall’altra - tutte le rimanenti nazioni occidentali, destinate a trovarsi in posizione sempre più debole rispetto al colosso teutonico ed, in prospettiva, ad essere superate dalle potenze emergenti dell’Est, visto che, nel prossimo ventennio, gli Stati, un tempo poveri satelliti dell’Urss, dimostreranno una dinamicità economica, che li porterà ad avere un Pil nettamente superiore a quello di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo.
Quindi, è cambiato il mondo e non ce ne siamo neanche accorti; è mutata la politica, dal momento che non esistono più i vecchi schieramenti partitici del Novecento e, di conseguenza, nascono nuovi attori, destinati a recitare un ruolo di protagonismo solo per pochi decenni, dato che l’assenza di un saldo ancoraggio ideale li porterà, ineluttabilmente, ad essere transeunti, alla maniera di una irrilevante moda commerciale o poco più.
Ma, in questi venticinque anni, in particolare è venuto meno il senso di solidarietà fra Europei, sia fra i cittadini, che fra gli Stati, come se la crisi finanziaria e l’impatto sociale, che ne è derivato, abbiano aumentato, notevolmente, il cinismo di quanti credono poco o per nulla alla possibilità di rigenerazione del nobile sentimento di fratellanza, che aveva prevalso in momenti altrettanto grevi della storia continentale, come dopo la cessazione del Secondo Conflitto Mondiale.
Ormai, il tavolo dei Capi di Governo europeo è divenuto come il marciapiede sotto casa, dove giocavamo da bambini, caratterizzato dalle malizie di noi adolescenti, tutti tesi a consumare la furbata di turno contro lo sprovveduto compagno di giochi.
Ma, se quello adolescenziale è il frutto di una goliardia, il comportamento invece dei Presidenti del Consiglio della nuova Europa del dopo-Maastricht non può, certamente, essere inquadrato in tale schema valutativo, visto che le decisioni del Consiglio Europeo possono modificare, in modo sensibile, le sorti di milioni di cittadini, rendendoli più ricchi e soddisfatti della loro esistenza o, purtroppo, più poveri e, soprattutto, depressi.
Quando, allora, l’Europa cesserà di essere vittima degli egoismi, che essa stessa ha generato, con atteggiamenti poco avveduti e scarsamente proficui, se non in vista del raggiungimento di interessi assai biechi e particolaristici?
Quando potremo essere, nuovamente, fieri ed orgogliosi nel proclamarci Europei?
Quando potremo essere impavidi, non temendo né l’arrivo di immigrati, che altrimenti rischiamo di non poter più ospitare, né la supremazia, finanche militare, di potenze dinamiche ed emergenti di altri continenti, che invero sta divenendo sempre più concreta ed attuale?
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