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mercoledì, 18 marzo 2015 15:36 |
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Rosario Pesce
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La vittoria, seppur di misura, di Netanyahu in occasione delle elezioni politiche israeliane, svoltesi ieri, rappresenta la più cocente sconfitta per il processo di pace, che si poteva verificare nell’attuale contesto internazionale.
Infatti, giammai come questa volta, la divisione fra il Likud ed il Partito Laburista era così netta, da far prefigurare, di fatto, due tendenze politiche diametralmente opposte: da un parte, la Destra, intenzionata a non fare nessuna concessione ai Palestinesi; dall’altra, invece, la Sinistra, interessata allo scambio - ormai divenuto un feticcio - fra territori e pace.
È evidente che la questione palestinese non abbia, solo, effetti sulla dimensione geo-politica del Medioriente, ma condiziona l’intero sistema delle relazioni internazionli fra il mondo arabo e quello occidentale.
Fino a quando ci sarà un Governo israeliano, per nulla intenzionato a riconoscere i territori allo Stato di Palestina, è chiaro che sarà sempre acceso un focolaio di guerra, che è divenuto, da tempo, strumento di giustificazione per l’integralismo islamico, che utilizza il dramma dei Palestinesi per fare facile proselitismo contro l’Europa e gli Statunitensi, i quali sostengono Israele contro le rivendicazioni – legittime e sacrosante – di coloro che sono senza terra e con una forma indefinita di Stato, qual è appunto quello palestinese, di fatto e di diritto mai riconosciuto dalla gran parte della comunità internazionale.
È ovvio che la vittoria di Netanyahu rappresenti il colpo di grazia alle possibilità residuali di giungere, a breve, ad una conclusione ragionevole del processo di pace; infatti, fino a quando a governare sarà la Destra del Likud, la parola “pace” sarà bandita dal dizionario della politica israeliana ed, inevitabilmente, sarà sempre più alto il rischio che alcuni gruppi fuori controllo del jihad islamico – in buona fede o con scopi, meramente, strumentali – possano utilizzare la questione palestinese per giustificare l’odio – ormai, atavico – contro il sionismo e, quindi, contro l’Occidente, che ne è, in qualche modo, corresponsabile e complice.
Come uscire, allora, dal cul de sac?
Non si intravedono chance autentiche di risoluzione della questione, anche perché la primavera araba ha modificato gli interlocutori nel vicino Nord-Africa e tutti, tranne il nuovo Governo egiziano, non sono soggetti con cui l’Occidente può intavolare una trattativa per la Palestina, tanto più in assenza del parere favorevole di Israele, che, indubbiamente, con Netanyahu ha una leadership molto autorevole, ma unicamente fondata sui principi del militarismo e della guerra permanente con i popoli, che vivono ai confini di Israele.
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D’altronde, mai come in questo caso, si sconta la difficoltà della Casa Bianca, perché – in tutta onestà – dobbiamo ammettere che Obama ha sbagliato la politica estera, in particolar modo nel corso del suo primo mandato, quando il Segretario di Stato, la Clinton, ha dato il suo assenso al processo di delegittimazione dei Governi arabi, che ha portato alla rivoluzione in tutto il Maghreb, senza per questo giungere ad individuare interlocutori credibili del processo di pace, anzi accentuando le ragioni della distanza - politica e culturale - fra Ebrei ed Arabi.
Fortunatamente, la vittoria di Netanyahu non è stata nettissima nei numeri, per cui egli dovrà, necessariamente, governare insieme ai Laburisti, visto che la differenza fra i due principali partiti è di pochissimi seggi parlamentari: questa condizione, sicuramente, aumenterà lo stato di confusione in Israele, visto che si trovano ad essere alleati quanti, fino all’altro giorno, delineavano due prospettive assai diverse della questione palestinese.
Riuscirà, quindi, a realizzarsi una proficua sintesi politica, che, ad un tempo, dia stabilità al Paese e fornisca gli strumenti, perché si acceleri viepiù il processo di pacificazione fra due popoli, che sono in guerra fra loro a partire dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale e, quindi, dall’uscita degli Inglesi dal Medioriente?
Noi Italiani non possiamo fare altro che rimanere ad osservare un processo, nel quale non abbiamo grandi mezzi per intervenire, dal momento che la nostra posizione si è schiacciata notevolmente, divenendo non distinguibile da quella degli alleati atlantici, mentre in passato - in particolare, negli anni Ottanta - eravamo i principali interlocutori del mondo arabo e, soprattutto, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, almeno fino a quando, al suo interno, ha avuto un peso decisivo Arafat.
Paghiamo, quindi, una debolezza ormai cronica, che ci porta a non tutelare, neanche, i nostri stessi interessi economici, come è successo in Libia, dove, ai tempi del Governo Berlusconi, abbiamo consentito che i Francesi rovesciassero il potere dispotico di Gheddafi, creando effetti negativi, di cui tuttora paghiamo il fio.
Non possiamo, quindi, fare altro che auspicare che la diplomazia internazionale, svincolata dagli Americani, possa avere uno scatto, anche grazie all’intervento della Chiesa cattolica e, quindi, del Vaticano, dal momento che - ormai - solo la voce dell’odierno Papa è, così, alta ed autorevole da essere in grado di interloquire, contemporaneamente, con tutte le parti in causa.
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