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Rosario Pesce
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La morte di Luciano De Crescenzo ha colpito l’intera opinione pubblica nazionale e non solo quella napoletana o campana, vista la grandezza della sua personalità.
De Crescenzo, infatti, è stato in particolare negli anni Ottanta e Novanta il rappresentante più riconoscibile a livello internazionale della napoletanità, ammesso che questa sia una categoria dello spirito, che vanta una propria dignità umana e morale.
De Crescenzo, senza cadere mai nel cliché, ha fatto rivivere a modo suo la tradizione della Napoli colta dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, riportando però l’identità partenopea nel ventre e nel cuore della città partenopea, utilizzando un linguaggio mai banale con il quale ha tentato - con successo - di volgarizzare le sentenze e le massime della filosofia più importante dell’Occidente, quella che prendeva le mosse dall’antica Magna Grecia e da Partenope per arrivare, appunto, al rango culturale della Napoli capitale borbonica.
La televisione, più che il cinema, è stata il mezzo con cui il messaggio di De Crescenzo si è diffuso dalle Alpi alla Sicilia, complice anche il protagonismo di suoi due grandi amici ed artisti, Pazzaglia ed Arbore, che lo hanno introdotto alla nobile arte televisiva, senza far perdere nulla in termini artistici alla sua proverbiale genialità ed originalità.
Cosa rimane a noi, oggi, dell’opera dell’ingegnere napoletano?
Le gag, forse, con Arbore?
Lo spirito bonario e saggio di chi, con pungente ironia, riesce a dire con una semplice e laconica battuta ciò che altri non riescono a dire con interi trattati di scienza o di morale?
Il valore dissacrante della sua arte, che certo ha contribuito ad innovare il linguaggio televisivo e cinematografico, anche grazie alla collaborazione di Arbore?
Forse, l’espressione di una certa napoletanità, che dopo aver fatto i conti con i mostri sacri della tradizione partenopea, ha saputo ridare vita allo spirito popolare di Partenope, di cui ogni artista nato al di sotto del Volturno non può non essere intriso?
Forse, la dimensione mondana della sua vita privata, che lo ha reso un libertino agli occhi di chi, almeno fino alla fine degli anni Ottanta, credeva che per gli artisti a maggior ragione dovesse valere la differenza fra pubblico e privato?
Con lui muore una parte di Napoli, invero, e come nel caso di ogni buon Napoletano – visto ciò che ha insegnato, anche, Eduardo Scarpetta – scompare un’identità complessa, che mette insieme miseria e nobiltà: ovviamente, una nobiltà che sublima la miseria e che non è mai in mera antitesi con la stessa.
Buon viaggio, Luciano: una tua battuta non potrà che seppellire molti pianti e dolori della Napoli di oggi, finanche dall’altra parte del cielo.
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