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Rosario Pesce
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È ovvio che lo sport sia una vetrina essenziale per chi è in grado di realizzarlo ad altissimo livello, ma lo è anche per un Paese intero, in particolare quando si tratta di uno sport di gruppo, che richiede - dunque - un sistema organizzativo importante e diffuso.
Non è un caso che l’Italia sia stata famosa, in tutto il movimento sportivo internazionale, quando la nostra Nazionale di calcio era ai vertici mondiali di quello sport, così come – ad esempio – le nazioni dell’Est sono sempre state note per il primato nel basket o nella pallavolo.
Cosa diversa è, invece, rappresentata dagli sport individuali, che mettono in evidenza le virtù del singolo, per cui non necessariamente la fama di uno sportivo determina effetti positivi per la nazione che egli, in qualche modo, comunque rappresenta.
È il caso così rimarcabile del tennis, ove sovente si fa fatica - finanche - a ricordare la nazionalità corretta di un campione.
Peraltro, lo sport di gruppo diviene molto spesso un collante significativo per intere generazioni: non si può dimenticare che, ad esempio nei primi anni settanta del secolo scorso, dell’Italia si conoscevano, in particolare, le prestazioni di Rivera e Mazzola, come se quelle giocate di campioni fossero un marchio distintivo di un’intera nazione.
È ovvio che non si può cadere in iperboli eccessive, ma non si può non tenere conto di questo fatto, quando si parla della crisi di un Paese, perché in quel concetto di crisi rientra, ineluttabilmente, il disagio anche del mondo dello sport, allorquando questo non è in grado di fornire di una realtà nazionale un’immagine migliore di quella elaborata dalla mera cronaca.
Ed, allora, come accade altrove, bisogna organizzare un sistema educativo molto forte nel settore sportivo?
Probabilmente, bisogna dare più spazio all’attività fisica, anche, nei curricoli scolastici?
Certo, come dicevano gli antichi Romani, è necessaria “mens sana in corpore sano”.
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