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Rosario Pesce
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Il calcio è, ormai, sempre meno italiano, nel senso che le famiglie del capitalismo nostrano tendono ad avere meno spazio, a loro disposizione, nell’acquisizione dei brand più importanti.
L’ultima vicenda, relativa alla vendita del Milan ad un imprenditore – comunque – statunitense, dimostra bene quale sia l’attuale stato delle cose.
Ormai, solo i capitali d’oltreoceano o quelli cinesi sono in grado di portare avanti delle società, i cui costi sono aumentati in modo vertiginoso, a fronte di introiti che, almeno in Italia, non sono cresciuti con la medesima velocità.
Nel Regno Unito o in Spagna sono, ancora, possibili investimenti rilevanti perché il sistema delle pay-tv finanzia in modo robusto il calcio di quei Paesi: basti pensare che la Premier League incassa dalle televisioni circa il triplo di quanto incamera la Lega di Serie A per effetto del contratto chiuso con Sky nel corso dell’ultima settimana, mentre con il precedente contratto, vigente in Italia, il rapporto era, addirittura, di 5 a 1.
A questo poi si aggiungano gli introiti derivanti dalla proprietà degli stadi e si può intuire la ragione per cui il calcio italiano è indietro anni luce rispetto a quello dei Paesi trainanti il nostro continente.
È ovvio che Cristiano Ronaldo o Messi, in tal modo, non verranno mai ad indossare la maglietta di un nostro club e le società di serie A, che si confrontano in Champions con le loro omologhe europee, partiranno sempre da una posizione di difficoltà, non facilmente colmabile solo con la passione e la buona volontà.
D’altronde, le differenze sono evidenti: da statistiche molto autorevoli, diffuse da Sky e da Il Sole 24 ore, il principale sodalizio italiano (la Juve, unica squadra di serie A ad essere proprietaria dello stadio) avrebbe un valore commerciale pari solo a quello della quarta potenza del calcio inglese (il Liverpool), ben lontano quindi dai due sodalizi di Manchester e dal Chelsea di Abramovich, e per nulla comparabile a quello delle due regine del calcio spagnolo (Barça e Real) ed a quello del principale club tedesco (il Bayern).
Una difficoltà, dunque, evidente che si esprime sia a livello economico che, di conseguenza, tecnico.
Quando sarà colmato un simile gap?
Certo, se il calcio europeo procederà nei prossimi venti anni nella medesima direzione degli ultimi dieci, non solo i nostri club non potranno competere con le potenze tradizionali dello sport continentale, ma dovranno stare attenti perché potranno essere raggiunti e superati da quelli dei Paesi emergenti (per lo più, quelli ex-comunisti dell’Est), che a breve avranno una liquidità comparabile, se non superiore ai loro concorrenti del mercato europeo occidentale.
Certo, se perdere per mano del Real o del Chelsea non è bello, a maggior ragione non lo sarà per mano della Dinamo Zagabria o del CSKA Mosca, così come, invero, non può non intrigarci l’idea che il Ronaldo o il Messi del prossimo decennio possano giocare all’ombra del Cremlino.
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