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Rosario Pesce
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È finito, anche quest’anno, il tormentone di Sanremo, che certamente è la più importante rassegna canora d’Italia, ma soprattutto è un appuntamento mediatico di cui l’Italia non può fare a meno, visto che rappresenta una vetrina per il Paese intero.
Ogni anno non può che ripetersi il dibattito intorno alla qualità delle canzoni e la bontà della direzione artistica.
Certo è che, ormai, la televisione ha imposto così tanti modelli artistici, che diviene difficile poter creare un prodotto effettivamente nuovo, che non sia in qualche modo la ripetizione di un déjà vu.
Pertanto, il mondo della musica leggera, che è emerso da questa edizione, come dalle precedenti, non può che risentire ancora degli echi dei mostri sacri della nostra musica italiana.
Non è un caso d’altronde che, quest’anno, la direzione artistica e la conduzione televisiva siano state affidate ad uno dei cantanti che, nei decenni precedenti, hanno incarnato la musica del nostro Paese: quel Claudio Baglioni che, peraltro, si è scoperto essere un perfetto uomo di spettacolo, anche al di là della musica in senso stretto.
È evidente che la progressiva scomparsa dei grandi cantautori non può che essere un danno non solo per l’arte, ma anche per l’economia del Paese, che si è sempre basata in modo rilevante sul plusvalore che può generare la musica e qualsiasi manifestazione che sia sinonimo di spettacolo.
Parimenti, l’attenzione verso le grandi tematiche sociali, che è sempre stata una peculiarità del Festival, anche quest’anno si è manifestata attraverso i continui riferimenti alla problematica dell’accoglienza e dell’inclusione dei migranti, a dimostrazione del fatto che, fra una canzonetta ed un’altra, si può perfino trasmettere un messaggio positivo a chi è in ascolto.
Ma, al di là della professionalità di chi si è prodotto in buone performance sul palco di Sanremo, è chiaro che, attraverso la musica, si può percepire il momento storico che l’Italia sta vivendo, forse uno dei peggiori della storia recente, visto che vecchi equilibri e generazioni stanno scomparendo progressivamente in molti campi e lasciano il posto a nuovi attori sociali che devono, ancora, emergere in tutto il loro fulgore.
Forse, questo è l’ultimo Festival della Seconda Repubblica, in attesa di quello del prossimo anno, che sarà il primo della Terza?
Certo è che non può non attivarsi, finanche nel campo delle arti, un processo di svecchiamento e di rilancio di nuovi talenti, a meno che non si voglia, di nuovo, assistere alla mera riproduzione della tradizione, che può andare bene per un revival, ma non invero per una manifestazione che deve segnare un passo in avanti verso il futuro e non due indietro verso un passato, le cui vestigia sono sempre in numero minore.
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