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Rosario Pesce
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Il trasferimento di Bonucci dalla Juve al Milan dimostra – se ce ne fosse, ancora, bisogno – che nel calcio odierno le bandiere non esistono.
Il difensore ex-juventino è stato, infatti, per 7 anni il protagonista dei successi degli Agnelli ed, oggi, con il suo passaggio al club, che è stato di Berlusconi, ha offerto un segnale evidente del fatto che i calciatori – tranne pochissimi – non sono più legati ai colori sociali delle loro squadre di appartenenza.
Solo, Totti è stato vincolato per due decenni al suo club, la Roma, rinunciando al trasferimento in società ben più prestigiose di quella capitolina, che gli avrebbero consentito di vincere molti più trofei di quei pochi che, invece, ha vinto rimanendo nella capitale.
Sono scelte ben diverse, queste ultime, che però condizionano di riflesso la mentalità dei tifosi.
Il calcio, infatti, è sempre stato una questione di amore e di affetti, per cui ogni tifoso rimane legato alla sua prima squadra, indipendentemente se arrivano o meno i risultati sportivi.
Vedere, per altro verso, che i calciatori non ragionano secondo un parametro affettivo, ma in base ad un criterio economico o di sviluppo di carriera, fa molto male ed induce lo sportivo ad allontanarsi sempre più da un fenomeno, che rischia di divenire meramente un’azienda, priva di un’anima sociale.
È ovvio, quindi, che il trasferimento di Bonucci al Milan, come quello di Higuain alla Juve della scorsa estate, finiscano per attirare le attenzioni in modo morboso: perché sacrificarsi per la propria squadra del cuore, quando i paladini della stessa, in primis, ragionano non con il cuore, ma con la mente rivolta al portafogli?
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