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Rosario Pesce
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È evidente che, nel nostro Paese come in tutta Europa, la politica stia vivendo un momento molto triste di delegittimazione, per cui popoli interi si ribellano - democraticamente - contro le classi dirigenti, votando molto spesso in favore di compagini il cui messaggio è, sostanzialmente, nullo.
L’unico collante, infatti, di tanti milioni di elettori è il sentimento di antipolitica, per cui si vota “contro” e non “pro” una tesi o un’idea di fondo.
Il crollo delle ideologie, verificatosi in modo plateale dopo la caduta del Muro di Berlino, alla fine del secolo scorso, ha purtroppo reso l’agone politico molto più povero, visto che, prima, quando si votava ancora in nome di un’appartenenza ideale, almeno la passione degli attori faceva sì che il grande teatro della politica fosse appetibile.
Oggi, invece, caduta la maschera delle ideologie e disvelatasi la mera tecnica dei protagonisti istituzionali, che prescinde da valori di fondo e da scelte di campo, è chiaro che molti Italiani, come moltissimi Europei o Statunitensi, manifestano il loro dissenso verso un simile stato di cose o non andando al voto o scegliendo per opzioni populiste e demagogiche.
Ovviamente, il rimedio diviene peggiore del male.
Molto spesso, infatti, non si può negare che, per tal via, le istituzioni democratiche rischiano di cadere nelle mani di avventurieri, che hanno l’unico titolo di merito di saper cavalcare l’onda buona del momento storico, ma in cambio non hanno alcuna competenza per ricoprire ruoli di massima responsabilità.
E, così, il popolo, quello che le nostre Costituzioni definiscono “sovrano”, si allontana sempre più dalla partecipazione democratica, fino ad essere del tutto abulico, quando le istituzioni lo chiamano a svolgere i suoi sacrosanti doveri civici.
È probabile che, nei prossimi decenni, un siffatto percorso - purtroppo - trovi una sua radicale enfatizzazione, per cui gli Italiani, che parteciperanno in modo attivo al dibattito pubblico, saranno meno della metà degli aventi diritto, a dimostrazione del fatto che la politica diviene un patrimonio in favore di una minoranza, eletta per ragioni economiche ovvero culturali.
La restrizione conseguente degli spazi della partecipazione democratica determinerà, di conseguenza, un’accentuazione degli atteggiamenti egoistici di moltissimi cittadini, che si affacceranno alla politica solo per il perseguimento di interessi ed obiettivi individualistici o corporativi, che poco hanno in comune con il sentimento della “polis”, così come ce lo hanno trasmesso gli antichi Greci.
In tale contesto, pertanto, le miserie diventeranno molteplici: non solo quella economica, ma anche quella politica, culturale, democratica, che segneranno un’involuzione fortissima del nostro Stato.
Cosa fare per fronteggiare un simile pericolo?
Forse, tornare alle ideologie?
Forse, superare il clima odierno di disincanto, creando nuovi miti e nuove idee forti, nei quali credere, finanche, acriticamente?
Forse, vincere l’atteggiamento di disaffezione dei cittadini, dando loro rinnovate motivazioni per una partecipazione, che non sia - meramente - espressione di interessi di parte?
Forse, rinnovare il primato delle idee, insegnando a tutti – sin da piccoli – che un buon concetto cardine vale più di molte azioni, segnate solo dal feticcio del tecnicismo fine a se stesso?
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