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domenica, 30 ottobre 2016 18:22

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Rosario Pesce
Il confronto televisivo fra Renzi e De Mita ha dimostrato quanto lontano sia lo stile dell’uno dall’altro.
I rispettivi atteggiamenti sono l’espressione di mondi non solo cronologicamente molto differenti, ma soprattutto diversi da un punto di vista culturale.
I politici della I Repubblica – e De Mita ne è stato uno dei più raffinati interpreti – erano tali: essi, per nulla propensi alla contumelia ed all’offesa, erano portavoce, molto spesso, di una visione profondamente ideologica del mondo e della società, per cui, quando mettevano insieme il mestiere insieme ai valori, come appunto nel caso del leader di Nusco, erano pronti ad affrontare le sfide più importanti di Governo.
Peraltro, la I Repubblica era costruita sul primato del Parlamento, per cui, in nome di un’autentica democrazia rappresentativa, i leader dell’epoca erano sempre propensi al dialogo ed alla mediazione: non disdegnavano mai il confronto, che era l’utile premessa per ampliare la base sociale dei provvedimenti, che andavano a realizzare.
Renzi, invece, è il figlio di una o meglio di due generazioni successive, visto che fra quella odierna e la I Repubblica bisogna inserire il ventennio berlusconiano.
Egli è l’espressione peggiore di una società, che non ricerca il dialogo, che non vuole il compromesso, finanche quando questo è nobile ed amplia gli orizzonti della democrazia, di una società che, quindi, predilige il decisionismo alla mediazione, l’efficienza alla collegialità.
Queste visioni del mondo, così lontane l’una dall’altra, ineluttabilmente sono destinate a scontrarsi, quando si parla di referendum e di democrazia parlamentare: Renzi abolirebbe ben volentieri il nostro modello di democrazia rappresentativa (e, di fatto, con la riforma lo fa), mentre De Mita non può che esaltarlo, visto che lui stesso ne è stato uno dei migliori interpreti.
Chi dei due è più attuale, allora?
La risposta sarebbe ovvia: Renzi, il rappresentante di un mondo che predilige la velocità della decisione alla sua piena democraticità.
Eppure, la nostra società, quella caratterizzata da mille conflitti, ha bisogno di una democrazia rappresentativa molto più di quanto questa esigenza non fosse avvertita dall’Italia del Secondo Dopoguerra
Infatti, nel nostro contesto, le differenze diventano spesso stridenti, incompatibili fra loro, per cui, in caso di vittoria del Sì e della logica, che ne è sottesa, prevarrebbe una mentalità che porterebbe, in brevissimo tempo, il Paese ad implodere per effetto di conflitti, che non sarebbero gestiti nel modo più virtuoso possibile.
La gestione del conflitto è, dunque, il mantra che gli Italiani dovrebbero tenere presente, quando andranno a votare il prossimo 4 dicembre.
Il primato della decisione può essere il primo obiettivo di una classe dirigente scellerata, che – finita la I Repubblica – ha creato molti più contenziosi di quanti non ne abbia risolti.
Forse, la mediazione dovrebbe piuttosto essere l’orizzonte culturale dei nostri politici, come di ciascuno di noi nell’agone della vita sociale e di quella istituzionale.
In tal senso, De Mita (ed il mondo di valori, che egli rappresenta) non è un vecchio arnese del passato, ma è l’espressione più nobile di un modo di essere, l’unico che può, ancora oggi, garantire al Paese un futuro, almeno, non gramo, a meno che non si voglia ambire ad una permanente condizione di conflitto, qual è quella che cagionerebbero la riforma renziana ed il passaggio conseguente ad una non meglio configurabile democrazia diretta, che sarebbe solo l’anticamera di un autoritarismo tanto becero, quanto dannoso per gli Italiani.
Forse, questi ultimi hanno - effettivamente - capito qual è la posta in gioco, per cui molto saggiamente, come denunciano i sondaggi, si stanno orientando per scegliere l’opzione del buon senso a quella dell’improvvisazione e del salto nel buio, che non sarebbe garanzia per nessuno, tanto meno per quanti, oggi, sono costretti a vivere ai margini del ceto dirigente della nostra traballante Repubblica.
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