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domenica, 26 giugno 2016 11:11

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Rosario Pesce
Sembra che, in questi giorni, fra il calcio e la politica vi sia una grande analogia.
Da una parte, infatti, l’uscita del Regno Unito dall’Europa fa sì che il protagonismo, nei prossimi anni, sia ineluttabilmente di quei piccoli Paesi, in particolare dell’Est, che di recente sono entrati nell’Unione ed in favore dei quali si sposta sempre più l’asse politico, dopo la decisione del popolo britannico di uscire dagli organismi comunitari.
Per altro verso, il Campionato Europeo, in pieno svolgimento in Francia, sta mettendo in evidenza sempre più la forza tecnica di quelle Nazionali, che un tempo erano considerate la Serie B o C del calcio continentale: da Albania a Croazia, da Galles ad Irlanda del Nord, da Polonia ad Ungheria, sembra per davvero che stiano cambiando le gerarchie del calcio europeo, anche molto più rapidamente di quanto si potesse immaginare.
È evidente che siamo ad un punto di svolta, in particolare nella vita delle istituzioni europee. L’uscita di scena della Gran Bretagna, che già si era dimostrata tiepida verso l’Europa, a tal punto che non aveva mai rinunciato alla propria moneta, determinerà nei prossimi mesi degli scossoni, la cui entità non è di facile previsione.
Innanzitutto, è ipotizzabile che possa esserci un effetto a catena, per cui anche altri Stati chiederanno di uscire, soprattutto se sarà data la possibilità ai cittadini di esprimere il loro parere attraverso un referendum, così come il Premier inglese Cameron ha fatto nel suo Paese, pagando peraltro a caro prezzo il suo europeismo, che si è scontrato con l’antieuropeismo dei sudditi della Regina.
Ma, l’uscita britannica non avrà solo conseguenze negative, almeno nell’immediato: è arrivato il momento, infatti, che ben oltre la retorica europeista degli ultimi due decenni, venga effettivamente analizzato il quadro odierno e corretti, eventualmente, gli errori che sono stati commessi. Partiamo dalla moneta, l’euro, imposta dalle autorità continentali, che ha di fatto impoverito milioni di Europei, che non hanno più il potere d’acquisto che avevano prima, quando venivano battute le vecchie divise nazionali.
Peraltro, la moneta unica è coincisa con la perdita totale di sovranità finanziaria da parte degli Stati, le cui rispettive Banche centrali sono divenute poco più che delle banche private, con l’unico reale potere di controllare il sistema bancario interno, senza però l’antico legame con il Tesoro e senza, soprattutto, il potere di battere moneta, che conferiva loro autorevolezza e capacità di condizionamento reale delle scelte di politica finanziaria.
Inoltre, è evidente che i principi, che hanno ispirato nel corso di questi decenni le scelte delle autorità continentali, sono stati tutti ispirati al sano liberismo di matrice novecentesca: tradizione culturale, questa, certamente nobilissima, ma forse inadeguata ad affrontare le sfide di una società, all’interno della quale i conflitti fra classi e generazioni si sono resi ancora più stridenti del recente passato, per cui la scelta dei cittadini britannici (o quella che potrebbe derivare in altri Paesi) niente altro è se non una moderna forma di lotta di classe fra gli integrati – gli europeisti – e gli incavolati – cioè gli antieuropeisti, tutti coloro che, dall’ingresso del loro Stato in Europa, hanno visto erodere sempre più la propria ricchezza.
È evidente che, quando le politiche finanziarie di un nuovo organismo generano povertà crescente e disagio sociale, la scelta dei cittadini diventa un atto di rottura con il passato, per cui le rivoluzioni, che prima si facevano con le armi e con lo spargimento di sangue, oggi si fanno attraverso la libera espressione del voto popolare.
Ma, un organismo elitario, come l’Unione, che risponde a logiche che non sono immediatamente comprensibili dal popolo, può sorreggersi sull’espressione di un volere democratico in senso compiuto, qual è la democrazia diretta, che si costruisce attraverso i referendum?
In tale contesto, a trarre vantaggio possono essere solo tutti quei piccoli Paesi, che un tempo rientravano nell’area di influenza sovietica, che avranno nei prossimi anni ancora maggiore spazio, dopo l’uscita della Gran Bretagna: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, le Repubbliche Baltiche, rappresentano, ormai, le uniche realtà che hanno effettivamente guadagnato dalla svolta europea della fine del Novecento e dei primi anni del Duemila.
Pertanto, l’analogia con il mondo del calcio, da cui siamo partiti, forse ha un senso più profondo: da una parte, la vecchia Europa, quella nobile ed un tempo potente, sempre più antieuropeista (vogliamo fare la prova, facendo il referendum in Italia, Francia, Spagna o, perfino, nella stessa Germania?) e dall’altra parte la nuova Europa sempre più europeista - incarnata da quegli Stati che hanno rappresentato, sempre, il cuscinetto fra Mitteleuropa e Russia - che invece cresce a vista d’occhio e fa richiesta di più Europa e di migliori politiche comunitarie ancora.
Una sola, importante differenza non può essere, però, omessa: se una competizione calcistica può essere vinta grazie alla prodezza di un calciatore polacco o slovacco, non esiste l’Europa priva della sua aristocrazia novecentesca, per cui è giusto che, dalle parti di Bruxelles, ragionino seriamente affinché, in futuro, il cittadino italiano o francese o spagnolo non faccia la medesima scelta di quello britannico.
Saranno capaci le élite europee di comprendere un simile dato e si attiveranno in tal senso?
Noi, frattanto, non possiamo che tifare, gridando a squarciagola “Forza Italia”.
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