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Una politica senza etica?

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domenica, 17 gennaio 2016 09:30

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Aristotele nella Scuola di Atene di Raffaello
Rosario Pesce
La gestione dei fattori complessi di una società implica, certamente, una conoscenza sistematica di dinamiche, che sovente gli uomini non sono in grado né di prevedere, né di realizzare in modo compiuto.
Il governo della società ovvero di comparti importanti dell’Amministrazione statale è cosa di grandissimo valore, perché non sempre le variabili, cui si va incontro, possono essere previste a tavolino, in modo tale da riuscire ad incastonare, in una cornice scientifica plausibile, almeno tutto il possibile.
Oggi, purtroppo, in particolare la politica soffre sempre più di tali spazi di improvvisazione, che delimitano e circoscrivono l’azione, assolutamente, inadeguata di parti importanti del personale impegnato nel dibattito odierno.
Dapprima, i partiti sono stati delle vere e proprio scuole di formazione, all’interno dei quali non solo gli uomini venivano a conoscenza dell’ideologia della propria parte, per cui potevano definirsi socialisti o comunisti o democristiani con il dovuto spirito, ma soprattutto ivi venivano a conoscenza delle necessarie nozioni, di cui avevano bisogno per affrontare la quotidiana sfida dell’amministrazione di comparti, più o meno articolati, delle aziende o dei comparti pubblici, che erano loro affidati.
Si passava, pertanto, attraverso la militanza politica dalla scienza tout court delle istituzioni - e del loro meccanismo composito - alla conoscenza sistemica della prassi, per cui il buon segretario di sezione non poteva non essere, anche, un discreto amministratore locale ovvero un buon capitano d’azienda o, ancora, un accettabile dirigente statale, qualora avesse deciso di lasciare il campo partitico e di darsi, in altra veste, all’esercizio del delicato compito dell’amministrazione.
I partiti, quindi, erano veri luoghi dell’essere e del fare, perché, al loro interno, si veniva costituendo la coscienza politica dell’individuo e venivano formandosi le competenze, tipiche della dimensione del fare, che segnano ineluttabilmente l’uomo, che vuole passare dalla teoresi alla praxis.
Platone e Aristotele, particolare della formella del Campanile di Giotto di Luca della Robbia, 1437-1439, Firenze
Oggi, dopo venti anni di distruzione puntuale dei capisaldi dell’agire istituzionale, il luogo della formazione ha lasciato il posto a quello dell’improvvisazione, per cui non solo non esistono più i partiti, ma è molto più difficile che possa nascere il buon amministratore o il buon dirigente di un’azienda pubblica o privata, perché la sua formazione è devoluta, unicamente ed esclusivamente, ad un curriculum sui generis, che può non essere sufficiente al cospetto di cotanta complessità del reale.
Cosa fare, allora, se finanche il compito degli educatori si è trasferito dalla formazione delle conoscenze a quello delle competenze, che sembrano sempre più prive delle necessarie fonti gnoseologiche, senza le quali nessuna competenza può mai essere, effettivamente, tale?
Sembra, quindi, che si vada incontro ad una società, che diviene sempre più asfittica, perché riduce la dimensione trascendente dell’essere ad un livello, meramente, ancestrale di soddisfacimento di bisogni essenziali ed istintivi, in virtù del quale il presente non è elemento né di costruzione del futuro, né di anticipazione del possibile in termini che non siano di solo ed esclusivo auspicio.
Costruire il futuro sul primato della prassi per la prassi, svincolandolo dal regno del sapere, equivale a costruire faraonici castelli di sabbia, privi della giusta solidità e, soprattutto, del necessario ancoraggio ad una dimensione fondamentale, che sia finalmente sottratta all’estemporaneità ed all’improvvisazione.
Sarà l’uomo capace di redimersi da tale prospettiva e creare, infine, un’ipotesi del proprio essere fra gli altri, che non sia la riproduzione, mutatis mutandis, di una logica strettamente biologica, che non soddisfa né il suo istinto vitale, né le ragioni più compiute di una giusta tensione all’Assoluto?
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