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La tv che non ci piace…

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lunedì, 05 gennaio 2015 15:28

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Monoscopio Rai (novembre 1953) - In alto a dx. il numero 2 identifica il centro trasmittente di Milano - da: http://www.radiomarconi.com/marconi/primi_monoscopi_rai.html
Rosario Pesce
Nei giorni scorsi è ricorso il sessantunesimo anniversario della nascita della Rai, che mandò in onda la prima trasmissione – come è noto – il 3 gennaio 1954.
È indubbio che la televisione pubblica, sin dal suo primo apparire, abbia modificato sensibilmente la società italiana, contribuendo a renderla meno provinciale e, soprattuto, dando un aiuto significativo, affinché gli Italiani si sentissero, effettivamente, un’unica nazione, visto che i cento anni precedenti di storia patria non avevano fatto registrare momenti esaltanti dell’identità nazionale, ad eccezione della prima guerra mondiale.
La storia della TV si può dividere in due grandi periodi: quello caratterizzato, nella prima fase, dal monopolio della Rai, e l’altro, contrassegnato dalla comparsa di Mediaset, che – a nostro avviso – ha contribuito ad abbassare lo standard qualitativo delle produzioni dell’emittente pubblica.
Nel corso di questi lunghi decenni, come dicevamo, la T.V. ha modificato, senza soluzione di continuità, i costumi, i modelli di pensiero e le abitudini di vita degli Italiani: la morale ha subito dei cambiamenti significativi per effetto, certo, delle mode lanciate dagli schermi televisivi, tant’è che nei primi decenni, in particolare, quando l’Italia era ancora il Paese bigotto, uscito dal Fascismo e dalla Seconda Guerra Mondiale, molti spettacoli televisivi sono stati oggetto di censura per gli abiti o gli atteggiamenti licenziosi di ballerine o show-girl.
Successivamente, la censura è divenuta, essenzialmente, uno strumento di lotta politica ed, inevitabilmente, la Rai è diventata il teatro preferito della contesa fra i partiti: non possiamo dimenticare tutti i pensatori eterodossi che, in forme diverse, sono stati allontanati dai suoi studi.
Ricordiamo, ad esempio, un dibattito fra Pier Paolo Pasolini ed Enzo Biagi, nel quale il noto giornalista bacchettava lo scrittore e regista per le sue posizioni anticonformiste e, da quel momento in poi, la Rai non diede più ospitalità all’intellettuale di origini friulane, che di lì a poco sarebbe morto tragicamente.
Il controllo politico della Rai è stato, sempre, una questione centrale per le sorti della democrazia italiana: l’attribuzione di una rete Rai a questo, piuttosto che a quel partito, era oggetto di trattative estenuanti molto di più che l’assegnazione di un Ministero, con o senza portafogli. In Italia, però, la spartizione è sempre stata, ragionevolmente, equa: in tempi di I Repubblica, Rai 1 veniva data ai democristiani, Rai 2 ai socialisti, Rai 3 ai comunisti.
In tempi di II Repubblica, invece, i criteri di assegnazione sono stati i seguenti: Rai 1 al partito del Presidente del Consiglio, Rai 2 a Forza Italia, Rai 3 alla Sinistra.
Come si vede, la presenza di ben tre reti televisive ha consentito di dare rappresentanza a tutte le principali forze dell’arco costituzionale, contrariamente a quanto accadeva in altri Paesi europei, dove l’esistenza di uno o al massimo di due canali televisivi pubblici faceva sì che la rappresentanza venisse accordata, solamente, alle forze di Governo.
Il momento, però, di maggior decadenza per la Rai è iniziato, quando Berlusconi, già padrone di tre reti televisive, diventando Premier, ha messo le mani sulla tv pubblica: da quel momento in poi è cominciata la rincorsa frenetica della Rai agli standard qualitativi della televisione commerciale e, soprattutto, la censura è diventata lo strumento, sistematico e palese, di governo della principale azienda pubblica di contenuti culturali.
Chi può dimenticare il famoso “editto bulgaro” di Berlusconi, quando l’allora Presidente del Consiglio chiese ed ottenne, praticamente in diretta televisiva, il licenziamento delle principali firme giornalistiche, accusate di promuovere ingiuste critiche all’azione del Governo? In quel caso, a pagare un prezzo alto furono Santoro, Luttazzi e Biagi, ma nel corso del ventennio della Seconda Repubblica numerose sono state le vittime dei diktat del potente di turno, per cui, se in passato l’acquisizione di un’occasione di lavoro in Rai era considerata, da molti professionisti della comunicazione, un avanzamento della propria carriera, da un certo momento in poi della storia italiana molte sono state le carriere “bruciate” a causa di "infelici" passaggi televisivi, negli studi di Viale Mazzini, sgraditi a questo o a quel partito.
Il conflitto d’interessi non è stato mai risolto e, tuttora, benché Berlusconi non sia più al Governo e sia stato espulso anche dal Parlamento, nessuno ne parla, come se non fosse più un’emergenza nazionale; eppure, lo stesso Berlusconi controlla ancora le tre reti televisive private più importanti, diverse testate giornalistiche e, soprattutto, vanta una posizione di forza nel mercato pubblicitario, per cui gli introiti, che Mediaset realizza annualmente grazie alla pubblicità, sono superiori a quelli della Rai, benché l’audience premi, ancora, la Rai.
Santoro ha tentato diverse volte di costruire, intorno a sé, un’iniziativa editoriale che desse vita ad un terzo polo nazionale dell’informazione, autonomo sia dallo Stato, che da Berlusconi, ma l’esperimento non è mai riuscito.
Infatti, il canale La7 è passato di mano in mano ed ora è di proprietà di un ex-socio dello stesso Berlusconi, Urbano Cairo. La raccolta pubblicitaria, che questo soggetto imprenditoriale è capace di realizzare, è notevolmente inferiore a quella del duopolio tradizionale, Rai/Mediaset, per cui non potrà mai, presumibilmente, competere con i suoi due principali antagonisti.
Se e quando nascerà nel nostro Paese una Terza Repubblica, è giusto che la nuova classe dirigente, innanzitutto, vada a regolamentare il regime di proprietà della televisione, facendo una scelta di campo ben precisa: la politica – quanto più sarà possibile – dovrà essere fuori dalla gestione della televisione di Stato, così come non si potrà concedere ad alcun imprenditore privato di avere più del 50% della raccolta pubblicitaria.
Anche il lancio della televisione sul mercato innovativo del digitale non ha liberato nuove energie, per cui non sono emerse né nuove proprietà, né i contenuti della Tv sia via cavo, che via satellite si sono differenziati, così notevolmente, da quelli della Tv tradizionale, se non per il fatto che, dagli antichi canali generalisti, è nata una molteplicità di canali tematici, che – a volte – funzionano come meri archivi e videoteche dei contenuti prodotti, originariamente, in analogico.
Frattanto, non ci resta che sperare che, chiunque ne sarà il gestore per conto dello Stato, possano tornare le belle trasmissioni, che la Rai produceva un tempo: se le odierne fiction, ad esempio, potessero lasciare il posto agli sceneggiati televisivi degli anni ’60 e ’70 - che riproducevano i grandi classici della letteratura nazionale e mondiale - da educatori e da cittadini saremmo tutti più felici!
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