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Un omaggio a Napoli

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lunedì, 05 gennaio 2015 15:27

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Dal nostro inviato
Rosario Pesce
Passeggiare fra le strade del centro antico di Napoli, nel corso delle liete giornate natalizie, è un piacere unico: uno sciamare di persone di diversa etnìa, lingue che si intrecciano, suoni e colori che nessun’altra città al mondo riesce a rendere con la medesima poliedricità.
Eppure, è la città più invisa agli Italiani, per i molteplici luoghi comuni, che sono stati costruiti, perfino ad hoc, per danneggiare la sua fulgida immagine internazionale: capitale di un Regno importantissimo per diversi secoli, ha subito la deminutio dopo l’Unità d’Italia, per cui è giunta a rappresentare l’icona più efficace della condizione odierna del nostro Paese, incapace di valorizzare le sue ricchezze ed i suoi innumerevoli talenti.
Come è noto, il centro storico di Napoli è uno dei più ampi d’Italia per superficie coperta, ma soprattutto è uno di quelli che serba il maggior numero di edifici di pregio architettonico, sia ad uso laico, che religioso.
Nel Settecento, Napoli era la città europea, che aveva il numero maggiore di Monasteri, Chiese e Conservatori all’interno del perimetro delle sue mura: ammirata da Inglesi e Francesi, Olandesi e Spagnoli, non solo era la capitale del Regno delle Due Sicilie, ma soprattutto era il riferimento internazionale per chi, provenendo da Nord, aveva bisogno di un attracco sicuro nel Mediterraneo.
Oggi, di quell’antico fasto rimane moltissimo, anche se la polvere dei secoli trascorsi pare abbia sommerso gli elementi preziosi, che il capoluogo partenopeo conserva nelle sue viscere, sia in quelle a vista, au plein air, che in quelle sotterranee ed esoteriche.
Oltre agli edifici, alcuni dei quali meriterebbero un adeguato restauro conservativo per tornare all’antico pregio, il trait d’union con il passato è l’umanità, fatta di persone vive e vitali, che affollano i vicoli di via Spaccanapoli e di via Tribunali alla medesima maniera di due secoli fa.
Persone che parlano una lingua, talora, incomprensibile agli stessi Italiani, molti dei quali vengono a Napoli con la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un laboratorio di cultura, così vasto, al cui interno non sanno muoversi, se non partendo dall’approccio più tradizionale, ma più ovvio: quello con le leccornie della cucina locale, tanto semplice, ma ad un tempo tanto complessa, com’è l’animo dei Napoletani.
Per decenni etichettati - a torto - come sporchi, indolenti e ladri, i Napoletani hanno saputo vincere, quotidianamente, la battaglia per la sopravvivenza: quella che si combatte per portare a casa un tozzo di pane, così come quella che si intraprende per non cedere, neanche, un metro quadro del proprio spazio vitale ai criminali, che sporcano la città con la loro presenza, radicatasi sempre più dopo l’Unità nazionale.
E, poi, le donne: quelle napoletane sono mamme, mogli, compagne, complici straordinarie dei loro maschi, che vogliono proteggere, e mai succube del sesso forte, visto che la stessa città antica, Partenope, prende nome da una semidea, quindi da un soggetto mitologico femminile, a dimostrazione del fatto che le origini greche ed, in particolare, focesi della città si radicano nei culti pagani della Donna sacra per antonomasia, Madre Gea, a cui tutta la cultura mediterranea è devota, dato che il bacino del Mare Nostrum era il luogo elettivo di quel culto antichissimo, che ha consentito che qui - contrariamente ad altrove - non germogliasse alcuna forma di misoginia e nascesse una tipologia raffinata di matriarcato.
D’altronde, ancora oggi, è percepibile il primato della donna nella società napoletana, a qualsiasi classe essa appartenga: la donna aiuta, suggerisce, prende l’iniziativa, difende le persone amate, sia nella vita privata, che in quella pubblica ed istituzionale, con la medesima forza con cui un mammifero protegge la sua prole, dopoché l’ha messa al mondo e continua a difenderla, finanche dopo che questa ha acquisito la sua giusta indipendenza.
Napoli, dunque, è città “femmina”: include al suo interno, come una madre può farlo, anche, con cuccioli che non appartengono alla sua razza, ma - al tempo stesso - può essere portatrice di sentimenti molto forti, per cui l’intera gamma sentimentale - dall’amore sfrenato e possessivo all’odio più viscerale e criminale - rientra a far parte della psicologia della donna napoletana.
Napoli è “femmina”, perché con la medesima facilità con cui si fa sedurre, alla stessa maniera si fa abbandonare: quante potenze straniere, dall’età antica in poi, hanno conquistato la città partenopea, l’hanno ridotta sotto il proprio violento giogo e, poi, l’hanno abbandonata, quando il nuovo potente di turno ha imposto, con la forza delle armi, il cambio di scenario politico?
Napoli, tuttora, è “femmina”, perché continua a guardare con ammirazione a ciò che le è lontano, non sapendo forse valorizzare ciò che essa stessa serba nel suo grembo: in molti aspetti della vita civile, infatti, la città partenopea si innamora - troppo facilmente - della novità, che proviene da fuori, come se la bontà del nuovo dovesse dipendere – ad ogni costo – dalla carta d'identità dell'invasore straniero, che - pur non esistendo più nelle pagine della storia contemporanea e sulle carte geografiche - continua a condizionare, in forme molto più subdole, il naturale corso degli eventi.
Napoli, infine, non cessa di essere “femmina”, perché molto, troppo spesso i media hanno modo di dileggiarla, senza pagare alcun fio: alla pari di una donna violentata, essa si agita nei racconti di quanti, non comprendendola o – peggio ancora – temendola, hanno interesse a sminuirne il fascino e la bellezza, mettendone in evidenza più gli sfregi – che, indubbiamente, essa reca – piuttosto che i lineamenti aristocratici, che sono parte integrante del suo codice genetico.
Ed è, proprio, l’aristocrazia il ceto che continua, con fatica, a governare a Napoli e a renderla seducente: non più, chiaramente, un’aristocrazia del censo, ma dell’intelletto, erede di quella che, nel 1799, tentò invano di fare di Napoli la Parigi del Mediterraneo, detronizzando il re assoluto, che invece vi fece presto rientro, e creando solo per una brevissima stagione le libertà civili, che i Borbone e la Chiesa cattolica avevano soffocato, pensando bene che il pane – finanche scarso e malfermo – potesse tornare utile al popolo minuto molto più dell’istruzione e del diritto di voto.
Napoli: Chiostro di Sant’Agostino alla Zecca
E questa mentalità, purtroppo, continua ad essere radicata in quanti si atteggiano come clienti di un padrone, che oggi non dimostra di possedere le qualità di un tempo: d’altronde, i Romani avevano fatto della politica un mero esercizio di clientele, per cui, rimanendo vincolata a quella forma mentis, Napoli dimostra - una volta ancora - di non voler tradire le sue origini, tanto nobili, quanto estranee allo spirito della modernità, che pure sotto al Vesuvio ha segnato una presenza importante, perché le principali idee della filosofia moderna sono nate sul suolo partenopeo, per poi produrre i migliori frutti fuori dalla stessa Napoli e da un’Italia, che nel Settecento era un’astrazione concettuale, forse né più, né meno di quanto non lo sia agli albori del 2015, a distanza di tre secoli circa dall'Illuminismo e nonostante siano trascorsi duecento complessi anni di storia unitaria.
Invero, Napoli non può affidare le sue chance di riscatto, solamente, ai successi della squadra di calcio e ai trionfi degli sportivi autoctoni: è giunto il momento, finalmente, che i Campani e gli Italiani tutti facciano della questione napoletana un’autentica problematica nazionale, perché non si può consegnare il patrimonio, culturale e morale, della città partenopea nelle mani di chi, per ciniche logiche di potere, ambisce a dileggiare ulteriormente Napoli, ben sapendo che questo costituisce il modo più facile per acquisire consenso nell’altra Italia - quella padana e subalpina - che, nell’ultimo secolo e mezzo, ha alimentato le proprie fortune sull'incessante depredazione delle ricchezze meridionali.
Per tal via, Napoli sarà sempre più il Meridione povero dell’Italia in crisi, mentre il Nord del Paese diverrà, ineluttabilmente, il Sud periferico dell’Europa a guida franco-tedesca: il nostro ceto politico, forse, sta lavorando per realizzare una simile, triste prospettiva?
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