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Rosario Pesce
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L’assoluzione del parlamentare radicale, che ha accompagnato un malato nel suo percorso finale verso una morte assistita, non può che far discutere, visto che moltissime sono le implicazioni di ordine morale e religioso che si accompagnano alla scelta di quello che è un vero e proprio suicidio.
Chi è il titolare della vita umana?
Dio?
La natura?
Noi stessi?
Chi può decidere che, per un malato in gravissime condizioni, deve finire la vita terrena?
Ed è vita quella di chi cerca la morte, visto che è allettato in condizioni di incoscienza e di assoluta dipendenza dalle macchine e dagli altri uomini?
Sono, questi, interrogativi a cui non si potrà mai dare una risposta compiuta, visto che ciascuno di noi può avere la sua visione del mondo, in un senso o nell’altro.
Ma, al di là delle convinzioni individuali, è ovvio che la legislazione deve porsi il compito di fissare delle norme in un campo siffatto, perché non può essere l’operato della magistratura - per quanto molto autorevole ed in modo legittimo - ad essere all’avanguardia rispetto ad un silenzio della norma che inquieta non poco.
Per questo motivo, sarebbe giusto che la politica, nel nostro Paese, aprisse un dibattito autentico intorno ai temi della vita e della morte, per giungere poi ad una formulazione giuridica che, per quanto possibile, sia la sintesi di un simile confronto democratico.
Peraltro, se si invoca sempre il ruolo dell’Unione Europea, è auspicabile che, anche in una materia simile, la legislazione continentale sia prevalente e che, dunque, in linea di massima tutti gli Stati possano avere un unico punto di riferimento, per evitare che lo stesso atto sia legittimo in uno Stato e proibito in un altro, obbligando i malati a fare lunghi viaggi prima di incontrare volontariamente la morte.
Forse, non basterà qualche anno per indurre il Parlamento italiano a legiferare, ma la sentenza della Corte Costituzionale apre un vulnus che nessun partito o movimento di opinione può trascurare.
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