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Rosario Pesce
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Con la morte di Bertolucci muore, come abbiamo scritto altrove, l’ultimo grande regista del Novecento ancora in vita, l’espressione più alta di un periodo – quello fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta – che ha prodotto moltissimo in termini di cultura letteraria e cinematografica per il nostro Paese.
Bertolucci ha avuto, certamente, molti maestri, ma quello che più lo ha condizionato è stato Pier Paolo Pasolini, che è stato il punto di riferimento per un’intera generazione di cineasti e letterati, prima ancora che divenisse un mito a causa della sua morte violenta, rimasta inspiegata almeno nelle aule dei Tribunali.
Pasolini, infatti, fu maestro di Bertolucci – come di altri – perché fu il legame più forte fra la cultura cosiddetta popolare e quella che, invece, chiamiamo aulica.
In particolar modo, la sua fu una rivoluzione di linguaggio, non solo in termini estetici, ma in particolare in termini etici.
Le sue immagini – finanche quelle più crude, che dovettero subire la violenza della censura – sono lo spaccato metaforico di un Paese che non si riconosceva nelle sue istituzioni ufficiali e che, non potendo rovesciarle, si limitava almeno a contestarle con sarcasmo e con apparente, violenta mancanza di senso del pudore.
La rivoluzione di Bertolucci fu, invece, più gentile.
La violenza, la forza dell’eros, l’originalità del suo fatto artistico sono già i primi mattoni su cui tentare di costruire, attraverso l’arte, una nuova Italia.
L’Ultimo Imperatore, anche se è rivolto a fatti lontani dall’Italia, parla del nostro Paese, così come Il thè nel deserto rappresenta, forse, il tentativo di fuga dal reale di un’intera generazione, che dopo aver perso la propria scommessa politica, evade in una dimensione che è prima dell’anima e, poi, concreta.
Bertolucci, quindi come Pasolini, ha narrato la più cocente sconfitta che intere generazioni di uomini hanno vissuto sulla loro pelle; eppure, quella sconfitta ha rappresentato il primo lievito della loro arte, che invece configura una vittoria estetica per intere generazioni di Italiani, visto che - dopo di loro - il mercato ha preso il sopravvento su qualsiasi possibile conato di immortalità dell’artista.
Forse, siamo più poveri senza la loro arte?
O, forse, la mancanza di artisti del loro livello è la migliore narrazione di un Paese che, dopo aver demolito delle certezze, è alla ricerca di una novità che, troppo spesso, si traduce in banale nuovismo?
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