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Rosario Pesce
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Si sa bene che la Scolastica ed, in particolare, San Tommaso hanno esaltato oltre ogni modo il ruolo della ragione sia nella costruzione di un sistema di verità religiose, che nel tentativo di possibile edificazione di una scienza del reale.
Si sa altrettanto bene che un siffatto impianto di sapere veniva ereditato dalla tradizione aristotelica del pensiero greco, per cui il Cristianesimo - e, soprattutto, la teologia medievale – ha recuperato concetti e dogmi che erano stati elaborati a distanza di molti secoli nella Grecia del V e del IV secolo a.C.
Oggi, a distanza di sette secoli circa dalla speculazione di San Tommaso, non può non evidenziarsi un vuoto importante e, per certi aspetti, inquietante.
La filosofia occidentale, costruita sul mito della ragione sia grazie alla riflessione cristiana, che a quella laica, prima pagana e poi tedesco-hegeliana, ha rappresentato un momento essenziale di una civiltà, che sembra essere superata nei fatti, oltre che nell’impostazione teoretica.
Forse, sarà l’affermarsi di un pensiero debole, nella forma come nella sostanza, che ha dirottato il nostro essere occidentali verso altri lidi rispetto a quelli inizialmente prefigurati dalla teologia e dalla filosofia?
Certo è che la società e la cultura, nate dal primato del razionalismo dapprima aristotelico, poi tommasiano e, poi, ancora hegeliano, sembrano in crisi profonda e, forse, irreversibile.
Mancano dei riferimenti saldi, che siano guida per una moltitudine di individui, che sono appunto “individui” e non costituiscono una compiuta comunità, con il relativo sentimento di appartenenza ad un gruppo, che dovrebbe contraddistinguere qualsiasi soggettività plurale, che si indentifichi con il “Noi” e non con il mero “Io”.
È un destino tragico, questo, visto che la culla della civiltà antica, medievale e moderna rischia di essere preda di isterismi di varia natura, in assenza di riferimenti tanto certi, quanto metodologicamente indiscutibili.
Ed è ovvio che per una simile società non può non prefigurarsi un tramonto irreversibile, che si potrebbe consumare ancora più rapidamente, qualora un siffatto consesso sociale si incontrasse con altre culture, che sono - invece - portatrici di sentimenti di orgoglio, di fierezza, senso dell’appartenenza e, quindi, di un forte radicamento in un orizzonte teologico, che conforta e dà le verità che, invece, altrove mancano.
Bisogna ripartire, dunque, dai classici del pensiero occidentale per rifondare lo stesso pensiero ed evitare che diventiamo tutti preda di una “insipienza”, che non può che essere l’anticamera della morte dolce di una civiltà che ha perso il piacere ed il gusto del ragionamento sottile e della speculazione sottratta a logiche, meramente, istintuali e prive di una saldezza metafisica.
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